Prendi due tipi agli antipodi, il bianco e il nero, il poliziotto e il criminale, il trasandato e l’elegantone, entrambi sboccatissimi: miscelali, shakera e vedi cosa succede. Succede che ne viene fuori 48 ore (1982) di Walter Hill, un originale thriller col ritmo di commedia imitato da chiunque (persino dal regista, che ne fece un sequel flop, Ancora 48 ore) per l’incredibile equilibrio tra azione, violenza urbana e toni esilaranti.
La storia è notissima: l’ispettore Cates (Nick Nolte) deve acciuffare un pericoloso evaso che ha ucciso dei poliziotti, e ottiene per due giorni la custodia del detenuto Reggie Hammond (Eddie Murphy), l’unico che può aiutarlo a risolvere il caso. 48 ore aggiorna e rivoluziona il vecchio modello del buddy movie, che solo un anno prima, nel 1981, aveva conosciuto il canto del cigno con Buddy Buddy, l’ultimo film di Billy Wilder, in cui Lemmon e Matthau ripetevano il cliché comico della strana coppia che portavano avanti da almeno tre lustri. Ma quello schema da commedia classica non bastava più negli anni Ottanta, decennio nutrito di postmodernismo ironico e sdrammatizzante, dove generi e linguaggi cominciavano a sovrapporsi con disinvoltura e i corpi televisivi debordavano nello spazio deputato al racconto cinematografico.
Infatti Murphy, al suo folgorante esordio sul grande schermo a soli 21 anni, arrivava direttamente dal successo tv del Saturday Night Live. Insieme lui e Nolte, guidati da una regia che non perde un colpo, mettono in piedi un film molto divertente, nel quale battibeccano e si menano di brutto, mandandosi continuamente a quel paese con un uso della parolaccia assolutamente liberatorio e politicamente scorretto (quale sceneggiatore oggi avrebbe il coraggio di infilare una tale sequenza di battute razziste, omofobe, sessiste?). Allo stesso tempo in 48 ore c’è un tesissimo e credibile ritmo d’azione, tra sparatorie, sangue e inseguimenti. I due generi, comico e thriller non si fondono del tutto (i primi 25 minuti, con il solo Nolte in scena, sono decisamente seri), eppure si spalleggiano e sporcano reciprocamente, aiutando la riuscita di un film che, pur ispirandosi a qualche buffonesco poliziesco metropolitano anni Settanta (Una strana coppia di sbirri di Richard Rush), possiede uno stile nuovo e personale.
48 ore non arriva al completo mescolamento di sghignazzo e violenza – marchio di fabbrica del cinema americano che dominerà la seconda metà degli anni Ottanta, da Arma letale (altra coppia black&white, i poliziotti Mel Gibson e Danny Glover) al Die Hard di Bruce Willis –, ma col suo straordinario successo, fu il settimo incasso stagionale statunitense, funge da apripista a quelle più disinibite (e discutibili) operazioni. Le quali s’indirizzeranno verso una comicità sempre più sbracata, nella quale l’assassinio è trasformato nella gag principale. Una formula ripetuta fino alla nausea, in film che hanno quasi sempre lo zampino dei produttori Lawrence Gordon e Joel Silver. Gli esempi sono innumerevoli, dallo Schwarzenegger di Commando del 1985 a Una perfetta coppia di svitati del 1986, con altri due poliziotti in bianco e nero, uno dei quali è inequivocabilmente un attore brillante, Billy Crystal. Qualche traccia di questo tono ridanciano e aggressivo la si può rinvenire persino in Quentin Tarantino: il quale usa come fonti, ovvio, soprattutto i b movies fino agli anni Settanta, ma che pure per le gag incentrate sulla violenza paga pegno al cinema del decennio successivo.
Al confronto 48 ore è un film più misurato nel quale, in linea generale, a Nolte è demandata l’azione e a Murphy la commedia, ma senza una chiara linea di separazione. Un equilibrio sottile nel quale non si percepisce mai la forzatura dell’accostamento, merito della scrittura e della regia di Walter Hill, non nuovo a esperimenti azzardati, visto che pochi anni prima aveva firmato I guerrieri della notte, riuscito thriller urbano coreografato come un musical. È un cinema assolutamente maschile e maschilista – Hill non è esattamente un direttore d’attrici – dove alle donne toccano parti da prostitute o compagne trattate con molta disinvoltura (basta guardare la povera Annette O’Toole alle prese con il brusco Nolte, non proprio il tipo dell’innamorato sentimentale).
La trama è elementare, una semplice caccia all’uomo (con un credibile cattivo, James Remar) cui giova la compressione spazio-temporale (un conto alla rovescia di 48 ore nella giungla metropolitana di San Francisco), che dà ritmo all’insieme. Un film che si regge tutto sullo stile di Walter Hill, crudo e laconico, eppure raffinato, con un preciso dosaggio di azione, humour, accelerazioni e rallentamenti nei quali emergono anche i caratteri di due protagonisti molto convincenti. Eddie Murphy, davvero accattivante, divenne istantaneamente una star cinematografica e ripeté subito lo stesso personaggio nel più leggero Beverly Hills Cop; l’intrattabile Nolte confermò le sue doti di interprete anarchico, in bilico tra grandiosità e sgradevolezza (qui ovviamente il tono è farsesco, ma si guardi il suo repellente poliziotto del successivo Terzo grado per capire cosa intendiamo). Peccato solo che, vedendola retrospettivamente, la carriera di tutti e tre ne sia uscita assai ridimensionata.