Nel ‘68, le proteste, gli scontri di piazza, i raduni, le utopie, la ricerca di nuovi modelli sociali hanno preso vita improvvisamente, e nel breve tempo di un anno sono sembrati svanire. In realtà, il Sessantotto ha avuto una sua prosecuzione e per buona parte degli anni Settanta non sono mancati, anche in Italia, fermenti politici e progetti di rinnovamento sociale. Lo rivela proprio la storia musicale del nostro Paese, che vede emergere negli anni Settanta numerosi gruppi del tutto originali per lo stile, spesso singolare nella fusione tra rock, folk e jazz, e per la scelta dei temi. Gruppi come Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, il Perigeo ed altri erano in qualche modo eredi del Sessantotto, di quelle sperimentazioni, di quel mondo onirico e visionario che nell’anno della rivoluzione giovanile era finalmente venuto alla luce.
Non a caso la musica “alternativa” si sposava con i raduni giovanili, e i concerti rock erano, così come accaduto nel Sessantotto, una sorta di rito nel quale il movimento scopriva la propria identità, misurava la propria forza, traeva la propria energia. In questo contesto un ruolo molto importante hanno avuto gli Area, la formazione musicale nata intorno alla figura di Demetrio Stratos, e poi sviluppatasi grazie al talento di Patrizio Fariselli e degli altri componenti, Giulio Capiozzo, Ares Tavolazzi, Paolo Tofani. Una storia di sperimentazione musicale tra le più impegnative e interessanti, narrata in un libro di Diego Protani e Viviana Vacca – pubblicato da LFA Publisher nel 2017 e quest’anno presentato nella sua riedizione – dal titolo “Sulle Labbra Del Tempo, Area Tra Musica, Gesti E Immagini”. Presentato con una prefazione dello stesso Patrizio Fariselli, il libro racconta non soltanto la ricerca musicale dello storico gruppo ma la loro presenza al fianco del movimento studentesco che animava i turbolenti anni Settanta.
Gli Area erano politicamente vicini al movimento, e le masse che partecipavano ai loro concerti non costituivano semplicemente “il pubblico”, ma una sorta di grande comunità con la quale condividere un’esperienza politica. La loro vicenda è interessante per molti aspetti, e perché ci ricorda che la musica può essere uno strumento politico, un veicolo attraverso il quale intervenire su temi d’interesse sociale, partecipare al dibattito pubblico e alla formazione di una coscienza collettiva. Ma soprattutto ci fa riflettere sulla differenza tra un impegno autentico e una certa attitudine ruffiana che porta molti artisti a strizzare l’occhio al pubblico con temi di facile presa e buoni all’occorrenza. Quante volte abbiamo visto, anche in anni recenti, personaggi del mondo musicale realizzare brani estemporanei che inneggiano alla libertà, al sogno di un mondo nuovo, alla lotta contro il sistema, tutti principi giusti ma poco significativi senza un impegno politico, senza la ricerca di una formula per realizzarli nella complessità delle cose.
Una cantautrice politicamente schierata come Giovanna Marini già alla fine degli anni Sessanta non mancava di polemizzare con Joan Baez, la vestale del folk, carismatica icona della contestazione americana: in un 45 giri pubblicato nel ’67 diceva: “La pace, l’amore, la giustizia, la verità: siamo d’accordo son belle cose ma/ si deve andare più in là, si deve andare più in là…”. La storia degli Area è proprio il tentativo di “andare più in là”, perché le idee musicali, come le idee politiche, sono più profonde se nascono dalla conoscenza e dalla partecipazione.
L’impegno politico e la musica, oggi raramente vanno a braccetto. Seppure la rabbia, la contestazione e il “j’accuse” sono ancora presenti nelle nuove generazioni, queste hanno preso la forma di un atto personale fine a sé stesso, che non confluisce in un ideologia precisa, in un progetto politico condiviso e condivisibile con il pubblico. Eppure la musica ha dimostrato di poter incidere nella coscienza collettiva. Il malcontento oggi abbonda in tante canzoni e la domanda che pongo a chi lo racconta è:
“Le cose devono cambiare? Quali? Come?”