Alla fine del primo weekend di programmazione, I Wonder Pictures festeggia il quasi milione d’incasso e gli oltre 110mila spettatori che hanno affollato le sale per vedere La Zona di Interesse di Jonathan Glazer, che dopo il Gran premio speciale della Giuria è atteso a qualcosa di importante agli Oscar 2024, dove ha ottenuto cinque nomination pesanti (film, regia, film internazionale, sceneggiatura non originale, sonoro). Risultati di tutto rispetto per un’opera che, volendo riesumare l’ineffabile classificazione di Mario Soldati – “i film li divido in quattro categorie: belli e divertenti; belli e noiosi; brutti e divertenti; brutti e noiosi” – senza dubbio finirebbe tra quelli belli e noiosi.
In questa definizione però la noia non va intesa in un’accezione banalmente negativa, o meglio va considerata come l’obiettivo perseguito dall’autore, il quale ricerca ostentatamente una pedante, asettica noiosità. A partire dal titolo, visto che la “zona di interesse” è la formula piattamente burocratica impiegata dai nazisti per indicare quell’area della Polonia meridionale, estesa per oltre 40 chilometri quadrati, in cui venne edificato il sistema concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, che costituì il cuore nevralgico del progetto di sterminio, sistematico e ingegnerizzato, degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale.
Zona di interesse è dunque un’accezione odiosamente eufemistica, che occulta volutamente la verità dei campi. E quell’eufemismo glaciale che sterilizza e tiene a distanza la sconvolgente brutalità dei fatti viene assunto alla lettera da Glazer quale cifra etica ed estetica di un film che non intende mostrare nulla dell’orrore concentrazionario (scelta che lo apparenta a un film pure stilisticamente diversissimo come Il Figlio di Saul di László Nemes).
Il regista britannico Glazer – al quarto lungometraggio di una carriera che l’ha visto negli anni Novanta affermarsi come uno dei più innovativi registi di videoclip e spot di straordinario impatto visivo – è partito dal romanzo omonimo di Martin Amis, di cui ha asciugato la polifonia di voci narranti, focalizzandosi su di un’unica storia, quella della famiglia Doll, chiaramente esemplata sulla vita vera di Rudolf Höss, il “comandante ad Auschwitz”, come recita il titolo dell’autobiografia che scrisse in carcere in attesa di essere giustiziato, nel 1947, da un tribunale polacco. Invitato a firmare la prefazione dell’edizione italiana di questo libro alla fine degli anni Cinquanta, Primo Levi scrisse che la confessione del gerarca nazista mostrava “con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un’ordinata vita famigliare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano”.
La Zona di Interesse è ossessivamente cadenzato da quella che, più che banalità del male, secondo la nota formula di Hannah Arendt, potrebbe definirsi normalità del male, opaca, quotidiana, insensibile. Appunto quella di Doll (Christian Friedel) e della sua famiglia, che, grazie alle alte mura che la separano dal lager, conduce un’esistenza quieta e conformista in una spaziosa villa con giardino e piscina, realizzazione, come sottolinea la moglie del comandante (Sandra Hüller), di tutti i loro sogni di confortevole vita borghese, sebbene venga sempre ipocritamente sottaciuta la fonte di questo miracoloso benessere.
Glazer segue il dettato, tante volte ribadito, dell’irrappresentabilità del lager. Il primo a esprimere questo monito fu il filosofo Adorno: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”. E nei decenni, soprattutto in ambito cinematografico, sono state diverse le prese di posizione contro la spettacolarizzazione della violenza concentrazionaria, dalla celebre polemica nata da una stroncatura di Jacques Rivette dell’immorale carrellata in avanti del film Kapò di Gillo Pontecorvo (in una recensione intitola Dell’Abiezione cui diede grande risonanza molti anni dopo il critico Serge Daney), sino all’interdetto pronunciato da Claude Lanzmann, l’autore del fluviale documentario Shoah, costituito di sole interviste a sopravvissuti e carcerieri, il quale aveva ha teorizzato l’impossibilità di mettere in scena l’orrore dei campi (di qui la sua dura censura di Schindler’s List).
Sul film Shoah si sono appoggiate, lo ricordava in un suo saggio Guido Vitiello, le tesi di “Gérard Wajcman, forse il più radicale teorico dell’irrappresentabile come cifra della civiltà e dell’arte del Novecento”, il quale paragona il film di Lanzmann, che rifiuta ogni ricorso illustrativo ai filmati di repertorio, all’opera suprematista del pittore russo Kazimir Malevič: “Shoah – scrive Wajcman – è la finestra del Quadrato nero aperta adesso sul paesaggio più tragico del secolo, la sua notte oscura nel cuore del suo giorno”.
Non è un caso allora che La Zona di Interesse parta esattamente dal quadrato nero dello schermo, che resta privo di immagini per lunghi minuti, aggredito solo dai suoni stridenti della colonna sonora raggelante di Mica Levi, che scompagina appena la superficie visiva. Parlando del Quadrato nero, il critico Peter Schjeldahl ha scritto che “Malevič è grandioso non per ciò che ha messo nello spazio pittorico ma per quello che ha omesso”. L’omissione è la strategia anche di Glazer: il suo film si muove perennemente lungo una dialettica in cui tutto ciò che è mostrato, cadenzato sull’idea del decoro e di ostentate compostissime buone maniere – Doll veste sempre di un bianco immacolato ed esibisce un delicato amore per la natura e il suo adorato purosangue, per il quale ha più trasporto che per la moglie – è assai meno importante di ciò che preme sulla cornice dell’immagine, suggerendo un tragico altrove che non conquista mai visibilità.
E se la carrellata di Kapò tendeva a concentrarsi sul dettaglio del primissimo piano spettacolarizzante e impudico della violenza, le calibrate carrellate di Glazer invece si muovono sempre lateralmente, ritraendo la vita tranquilla dei mediocri nazisti nella sezione inferiore dell’immagine, con la tragedia del campo di stermino, appena intuibile oltre il vasto muro di cinta, a occupare la porzione superiore del quadro. Il lager cioè non è integralmente fuori campo, ma resta appunto, letteralmente, “campo” di stermino, suggerito nell’inquadratura assediata dalla forza dell’irrappresentabile, che ritorna sempre sotto forma di tracce disparate, clangori, bagliori, fumi degli incendi in cui vengono inceneriti i cadaveri.
Anche dalle impercettibili reazioni della famigliola qualcosa traspare: il bambino sa che è meglio restare a giocare coi suoi balocchi senza mai sporgersi dalla finestra; mentre la brava nonnina in visita adora la casetta dei sogni messa in piedi dalla figlia, almeno fino a quando il rosso degli incendi non le ricorda da cosa quell’improvviso benessere sia originato, rendendoglielo insostenibile.
Quando poi La Zona di Interesse zooma verso il primissimo piano ciò che ottiene è solo un nuovo livello di irrappresentabilità, col nero, il rosso o la caligine del fumo che occupano l’intera inquadratura, a rammentare come una realtà vista troppo da vicino divenga immediatamente orribile e incomprensibile – qualcosa di molto simile succedeva nel celebrato film precedente di Glazer, il fantascientifico Under The Skin, che tendeva a un’astrazione visiva molto lontana da una tradizionale opera narrativa.
Accade più o meno lo stesso con La Zona di Interesse, opera ostinatamente teorica, in cui la postura concettuale è più importante della vicenda raccontata. Film folgorante e coerente: sicuramente importante, ma distante e “noioso”, tutto sigillato dentro il suo partito preso antinarrativo che si guarda con ammirazione intellettuale, ma senza partecipazione. Ma non paiono il sentimento o l’adesione emotiva gli obiettivi di Glazer. Il quale, tra le righe, non parla solo della storia del Novecento ma anche dell’oggi, come traspare da un folgorante salto cronologico che fa immediatamente pensare all’Austerlitz di Sergei Loznitsa.