Quando un regista decide di fare un film sulla Shoah si trova sempre di fronte a una questione spinosa: che forma scegliere per rappresentare una violenza che non ha precedenti nella storia dell’umanità senza cadere in una immorale spettacolarizzazione del dolore? Pesano diversi pareri autorevoli, da quello del filosofo Adorno (“Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”) all’interdetto di Claude Lanzmann, il cineasta francese che, forte dell’autorevolezza del suo documentario Shoah, ha teorizzato l’impossibilità di mettere in scena l’orrore concentrazionario, da cui anche la sua dura censura di Schindler’s List.
Sull’altro versante voci come quella del filosofo Georges Didi-Huberman, che nel suo libro Immagini malgrado tutto dice espressamente: “Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile”. È necessario dunque trovare un modo per rappresentare il lager, sia per sottrarsi al rischio di una sacralizzazione – seppur in negativo – della violenza, sia per non condurre a termine il lavoro dei nazisti, che cercarono in ogni modo di far scomparire le tracce dello sterminio per cancellarne qualunque memoria.
Quello tra rappresentabilità e irrappresentabilità è un punto di discrimine, come se ci fosse una cornice di fronte alla quale dobbiamo decidere se porci al di fuori dei margini, reputando inammissibile la messa in forma della Shoah, o dentro, rendendo visibile la tragedia, nella consapevolezza di correre il rischio di spettacolarizzarla. In tale prospettiva, diventa chiaro che le scelte estetiche hanno delle implicazioni etiche, come sostenevano già i critici-cineasti Godard e Luc Moullet quando affermavano che “la carrellata è una questione morale”.
Parte da qui il regista ungherese László Nemes per Il figlio di Saul (Saul fia, 2015), Gran premio della Giuria a Cannes 2015 e indiscusso film d’autore dell’anno, vincitore del Golden Globe e quasi certo trionfatore agli Oscar il prossimo 28 febbraio. L’autore infatti, al suo esordio da regista (dopo un apprendistato prestigioso, è stato aiuto del celebrato Bela Tarr), ha deciso di affrontare il tema della Shoah, in primo luogo, come una questione formale, trovando dei codici espressivi assai personali e all’altezza del tema. E tutto ruota intorno all’idea della cornice, del confine tra rappresentabile e irrappresentabile, visibile e invisibile o, tradotto in termini cinematografici, campo e fuoricampo, alla ricerca di una sorta di “terza via” in grado di mediare tra le due istanze.
Il figlio di Saul racconta la vicenda nel lager di Auschwitz dell’ebreo-ungherese Saul (Géza Röhrig), membro del Sonderkommando, cioè le squadre composte da prigionieri che accompagnavano i deportati nelle camere a gas e poi si preoccupavano di smaltire i cadaveri, bruciarne i corpi, raccogliere e selezionare i beni sequestrati, pulire i locali. Uomini che conducevano alla morte i loro fratelli, ricavandone qualche mese di sopravvivenza e condizioni di vita minimamente meno bestiali rispetto ai propri simili. Saul crede di riconoscere in una vittima il figlio: a questo punto, contravvenendo alle regole ferree del lager, cerca un rabbino per sottrarre il corpo del giovane all’incenerimento e dargli sepoltura religiosa.
Questa la storia. Ma ciò che importa è soprattutto il “come” de Il figlio di Saul. Nemes fa delle scelte formali di grande pregnanza. Il film è girato quasi integralmente in semi-soggettiva, con la macchina da presa costantemente incollata al protagonista. Una messa in scena asfissiante che, visti i ristretti margini del campo visivo, non permette mai allo spettatore di capire cosa precisamente stia accadendo, perché il mondo gli si offre – esattamente come a Saul – solo per dettagli e brandelli che non compongono mai un’immagine complessiva.
Nemes esaspera questa scelta aggiungendo, tramite l’impiego costante di un obiettivo a 40 mm, una scarsissima profondità di campo, per cui solo Saul e i suoi immediati pressi sono visibili nitidamente, mentre lo sfondo resta indistinto e opaco. Inoltre il formato del film è quadrato, a esasperare la claustrofobia dell’insieme. Una cornice visiva rigorosa e occlusiva, che dà sostanza materiale all’oscillazione tra rappresentabilità e irrappresentabilità di cui parlavamo prima, traducendola in scelte formali che sottendono quelle morali.
Ciò non vuol dire che Nemes opti per l’impossibilità della messa in scena. Tutt’altro, lo spettatore, seppur solo per scorci, comprende tutto, percepisce l’insostenibile fisicità della vita-non vita all’interno del lager la quale, vista a distanza millimetrica, gli viene restituita come un continuo schiaffo in faccia. Ma quasi mai gli eventi vengono mostrati direttamente: non vediamo la morte al lavoro, l’atto di uccidere, né entriamo nelle camere a gas. Restiamo accanto a Saul, dall’altro lato, ascoltando le voci, i lamenti strazianti di esseri umani che stanno morendo. La violenza quindi viene rappresentata con smagliante evidenza: ma in modo indiretto, tramite indizi, tracce, esasperando la dimensione da incubo di un male che pure non vediamo compiutamente in atto. E così lo spettatore non rischia mai di diventare un voyeur, ma è posto in una posizione simile a quella dello storico che, a partire da dati lacunosi e parziali, cerca di ricostruire il contesto e i significati generali.
Il figlio di Saul lavora sulla cornice, su quel filo sottile teso tra visibile e invisibile: e restituisce l’orrore soprattutto attraverso un fuori campo che preme, assedia tutto quanto è sottoposto allo sguardo. Si tratta di una soluzione, sia dal punto di vista estetico che concettuale, di notevole intelligenza, che ha ottenuto il plauso di Didi-Huberman (“Un mostro. Un necessario, coerente, benefico e innocente mostro”) e ha aggirato l’interdetto di Lanzmann, secondo il quale infatti Nemes è riuscito a sottrarsi al ricatto spettacolare (“è l’anti-Schindler’s List”, ha detto).
Il figlio di Saul fa anche di più: l’uniformità della messa in scena restituisce il senso di frustrante monotonia della vita del lager, nel quale ogni minuto di ogni giorno è macchinalmente uguale al successivo, affogato nell’atroce assenza di senso ripetitiva dello sterminio. Probabilmente è anche questa la ragione dell’enigmatica missione di Saul, che nel dare sepoltura a quello che (forse) è suo figlio ritrova un barlume di significato nel luogo che ne costituisce la negazione più assoluta.
In conclusione resta una domanda: è davvero riuscito Nemes a trovare una terza via tra rappresentabilità e irrappresentabilità, una visione dell’orrore che fa salva l’istanza morale? Difficile dirlo. La macchina da presa incollata al protagonista, come ha rilevato con acume Emiliano Morreale, dà all’insieme un sapore quasi da videogioco, con un tipo di strategia immersiva che rischia di esasperare l’esperienza fisica di chi guarda, rendendola paradossalmente amplificata e spettacolare, e perciò potenzialmente ricattatoria.
Sollecita interrogativi anche la scelta di far incarnare il protagonista da un non attore, il poeta Röhrig, il cui non professionismo introduce nella sua interpretazione una sorta di distacco, di mancanza di adesione emotiva. Da un lato questa cosa crea una ulteriore dissonanza straniante per lo spettatore, sballottato tra l’intensificazione dell’esperienza sensoriale e la freddezza di un protagonista scarsamente sentimentale in cui è arduo immedesimarsi. Dall’altro però questa decisione può essere anche letta come un vezzo, l’uso di una marca stilistica – sul modello della predilezione per i non attori del grande Robert Bresson – che aiuta a far rubricare Il figlio di Saul nella categoria del “film d’autore”. In generale, tutta la ricercata confezione della pellicola può essere interpretata tanto come il frutto di una sincera urgenza espressiva quanto come una discutibile operazione a tavolino. Difficile trovare una risposta a questo interrogativo. Pilatescamente, do ragione a Goffredo Fofi quando dice che per sciogliere il nodo bisognerà attendere i prossimi film di Nemes. Ma è fuor di dubbio che Il figlio di Saul sia un’esperienza cinematografica imprescindibile.