Barbie, il film di Greta Gerwig tra emancipazione femminile e brand marketing

Prodotto dalla Mattel, il film con Margot Robbie e Ryan Gosling dà lustro al mito della bambola, da cui trae l’iconografia coloratissima, e si concede qualche notazione critica, mai meno che affettuosa. E gli incassi volano

Barbie

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Barbie è arrivato. Dai primi riscontri l’effetto è decisamente dirompente: quattro milioni di incasso e oltre 500mila spettatori nei due primi giorni di programmazione italiani, oltre 22 milioni di dollari al box office nel giovedì di preview negli Stati Uniti. Il tutto trainato da una campagna pubblicitaria martellante che s’è inventata pure la trovata del Barbienheimer, accoppiando il film diretto da Greta Gerwig all’Oppenheimer di Christopher Nolan, in Usa uscito nello stesso giorno (da noi arriverà il 23 agosto). Ed è chiaro che i trionfalismi testimoniano all’inverso tutti gli schricchiolii di un’industria del cinema alla disperata ricerca di titoli che rimpinguino incassi latitanti (e non sono gli stanchi Indiana Jones 5 e Mission Impossible 7 a poterlo fare, film che al di là delle apparenze mirabolanti sono prodotti che provengono da un passato nostalgicamente inteso, e poco possono incidere sull’oggi).

Barbie invece, piaccia o meno, è un film del suo tempo, che prende l’icona pop della bambola ideata dalla Mattel nel 1959 e le confeziona intorno un racconto aggiornato a temi, estetiche e strategie di marketing della nostra era. Il film, distribuito dalla Warner, è prodotto dalla Mattel, caposaldo di un’ambiziosa strategia del Ceo Ynon Kreiz, che ha ideato una divisione cinema interna all’azienda chiamando a dirigerla Robbie Brenner, la produttrice nominata all’Oscar di Dallas Buyers Club. Quindi, nonostante le dichiarazioni di rito di Kreiz – “Il rischio era che la gente fuori dalla Mattel pensasse che volessimo fare film per vendere più giocattoli. Qui non si tratta di vendere più giocattoli, ma di creare contenuti di qualità” – l’obiettivo, sulla scorta di case history importanti come il ciclo di film dei Transformers ispirati ai giocattoli prodotti dalla Hasbro, è esattamente quello di espandere (e diversificare) il business aziendale.

La cosa non scandalizza e rientra legittimamente nei disegni di una grande compagnia. Una volta coinvolta nel progetto Margot Robbie – che del film non è solo (ideale) protagonista, ma anche coproduttrice con la sua LuckyChap Entertainment –, è stata giustissima la scelta di puntare su Greta Gerwig come regista, autrice pure della sceneggiatura col partner Noah Baumbach. Insieme hanno costruito un dispositivo narrativo molto consapevole, che contempera le esigenze del brand – per l’occasione la Mattel ha lanciato una serie di bambole ispirate ai personaggi del film, con il pupazzo della Robbie immediatamente schizzato in testa alle vendite su Amazon – con l’autonomia di un racconto che sa trovare una sua chiave per veicolare, in forma a tratti quasi didascalica, alcuni delle questioni centrali del dibattito contemporaneo, che ruotano intorno a femminismo e patriarcato.

Che la Gerwig fosse la scelta giusta lo dimostrava un momento rivelatore della sua precedente regia, l’ottimo Piccole Donne, in cui la protagonista Joe, scrittrice dallo spirito indipendente e dalla vocazione femminista, accetta con pragmatismo l’imposizione da parte dell’editore al suo romanzo di un lieto fine narrativamente posticcio, indispensabile per il successo del libro. Barbie si muove lungo la medesima sottile linea di confine, in cui la ricerca di una cifra autoriale personale non va mai a scapito degli obiettivi dell’azienda, rappresentata sì in una chiave a tratti bonariamente critica – il consiglio d’amministrazione Mattel tutto drammaticamente al maschile, però incarnato dal volto e dai modi bambineschi e pasticcioni di Will Ferrell –, ma sempre rispettandone integralmente la mitologia – basti vedere l’alone quasi misticheggiante da cui viene circonfuso il personaggio di Ruth Handler (Rhea Perlman), cioè la vera creatrice della bambola.

D’altronde Barbie, nei suoi oltre sessant’anni di vita, è divenuta un simbolo intergenerazionale non solo americano. E infatti il prologo, che spudoratamente rifà alla lettera 2001 Odissea nello spazio, traduce il monolito kubrickiano in una Barbie-Margot Robbie statuaria alta decine di metri, certificandola quale inaggirabile, gigantesco mito codificato dell’immaginario collettivo. E come tale lo tratta consapevolmente il film, che dalla bambola assorbe l’iconografia pop coloratissima, non destrutturando il mito ma riflettendo su di esso in una chiave carezzevolmente critica, il cui obiettivo è inevitabilmente – Gerwig lo sa bene e non mira ad altro – quello di rafforzare l’identità di un brand globale.

Così il film invece di omettere gli aspetti più discutibili e storicamente discussi della bambola – le proporzioni fisiche irrealistiche e irraggiungibili di un manichino da agghindare consumisticamente con infiniti modelli di abito, espressione di un mondo affluente, sorridente e tutto bianco – li pone dichiaratamente al centro della narrazione. La cui protagonista è la “Barbie stereotipo” di Margot Robbie – la versione più vaporosa, pink e superficiale della bambola – che vive a Barbieland, mondo ideale (tra Truman Show e Pleasantville) governato da donne tutte di successo che si chiamano tutte Barbie (di qualunque etnia siano).

In questa realtà in cui si susseguono solo giorni perfetti e ogni sera feste memorabili e rigorosamente al femminile, gli uomini costituiscono un’appendice insignificante, loro gli autentici pupazzi la cui esistenza dipende dal fatto che le Barbie li guardino per dare un senso alla loro vuota esistenza. Il Ken di Barbie stereotipo (Ryan Gosling, deliziosamente autorironico) è un manzo tutto muscoli la cui unica attività è di manifestarsi in posa stentorea sulla spiaggia, non sapendo fare letteralmente nulla. E nulla in fondo ci sarebbe da fare in questo paese delle bambole consapevole di essere un simulacro di cartapesta: case trasparenti senza mura, specchi senza vetri, stoviglie che non contengono né cibo né acqua, spiagge senza mare.

Eppure in questa dimensione integralmente artificiale un giorno, tra un party e l’altro, nella mente pupazzesca di Barbie stereotipo si materializza un pensiero di morte. Il quale, come le rivela l’unica bambola eccentrica (ed emarginata) del mondo fatato, Barbie stramba (Kate McKinnon), dipende dalla connessione che Barbie ha con la bambina, evidentemente infelice, che nel mondo reale gioca con lei. A quel punto, per suturare la pericolosa ferita che incrina il mondo ideale, Barbie è costretta a recarsi in quello reale (attraverso un viaggio la cui estetica piacerebbe molto a Wes Anderson), accompagnata dallo spasimante Ken, per rintracciare la sua proprietaria e aggiustare le cose.

Appena arriva a Venice Beach Barbie però scopre la verità: e cioè che il female power di Barbieland non ha per niente risolto i problemi del mondo reale, in cui sono ancora gli uomini a menare le danze e squilibri e discriminazioni di genere sono all’ordine del giorno. La prospettiva intriga soprattutto il bellimbusto Ken, che una volta scoperto il patriarcato – per un bizzarro fraintendimento lo collega alla presenza dei cavalli –  è ben intenzionato a importarlo a Barbieland per riscrivere le regole del paese dei balocchi al femminile.

Greta Gerwig ha composto un film a tesi su femminismo e patriarcato, sempre però filtrato attraverso l’ottica del brand Mattel, in cui quindi se sono posti in discussione alcuni dei capisaldi del modello sociale maschilista non è mai autenticamente posto in discussione il ruolo e il peso che l’icona Barbie ha storicamente avuto all’interno del dispositivo maschilista. Al contrario, proprio l’esplicita tematizzazione della questione di genere all’interno del film finisce per riconoscere e apprezzare tutto il lavoro compiuto almeno da un decennio dalla Mattel per ridefinire il profilo della bambola. La quale, da creatura perfetta che instilla un angoscioso senso di inadeguatezza nelle bambine, si è evoluta più recentemente in simbolo inclusivo, con Barbie di diversa etnia (in realtà la Mattel produsse la prima bambola nera, Christie, nel 1968) e l’enfasi posta sull’autonomia, l’autoconsapevolezza e il protagonismo di una donna non più oggetto.

Barbie cerca una misura muovendosi in perenne equilibrismo: non censura il passato della storia produttiva della bambola, ma lo relativizza, infiocchettandolo e circoscrivendo in un dispositivo narrativo che dichiara ciò che stato solo per sottolineare come ormai le cose siano cambiate. L’estetica pop e camp iridescente, il tono sorridente e ammiccante pieno di gag, la consapevolezza metacinematografica che cita a più non posso altre pellicole, da Matrix al Padrino, fa il resto, scandendo lo stile del film. In cui tutto sembra dichiarato e mostrato come fosse messo tra parentesi, privo di conseguenze davvero drammatiche. Le mire patriarcali di Ken – che nel delirio d’una ritrovata autostima, va in giro con una maglietta con su scritto Kenough – hanno un che di buffonesco; ed è poco credibile come simbolo della grettezza capitalista l’amministratore delegato Ferrell, che afferma di essersi sempre preoccupato dei desideri delle bambine e frigna su quanto sia stressante essere un leader.

E allora, al netto dei didascalici pistolotti sull’emancipazione femminile ripetutamente ammanniti, la cifra di Barbie è proprio in questa continua ricerca del giusto mezzo tra dichiarazioni d’intenti motivazionali e brand marketing. Che si risolve in un finale, come recita la voce fuori campo della narratrice (in originale di Helen Mirren) che descrive perfettamente l’arco narrativo di Barbie stereotipo, passata dai colori pastello e la plastica di Barbieland ai colori pastello e la plastica di Los Angeles. Forse il graffio satirico più incisivo del film.

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