Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno: già la macchinosità del lunghissimo titolo fa presagire che qualcosa non funzioni nell’ennesima creatura (la settima) del franchise nato nel 1996, con cui Tom Cruise si è riciclato in campione del cinema action. Un genere cui lui ha voluto sempre ostinatamente apporre la sua cifra realista dello stunt eseguito, ove possibile, in prima persona, fedele a un’idea di cinema analogico e non asservito all’artificio digitale.
Così Cruise ha finito per interpretare il ruolo di ultimo alfiere di un cinema novecentesco, abbarbicato anche all’altro rituale della settima arte del secolo scorso, la visione nella grande sala buia, rifiutando la scorciatoia delle piattaforme. Scelta che ha costretto a posticipare l’uscita sia di Top Gun: Maverick che di questo Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno, che addirittura si era cominciato a girare nel 2019, con le riprese bloccate dalla pandemia.
Così, al suo arrivo in sala, il film diretto dal fido e affidabile Christopher McQuarrie, che ha preso le redini del franchise a partire dall’episodio cinque e che ovviamente è il regista anche del già annunciato, per il 2024, Dead Reckoning – Parte Due, è esempio di rituali cinematografici residuali, che pretende e impone la visione collettiva.
Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno condivide sia atmosfere che scelte narrative con l’altro recentissimo quinto episodio di Indiana Jones. E sebbene circa vent’anni, un’intera generazione, dividano anagraficamente lo splendido ottantenne Harrison Ford dallo splendido sessantenne Tom Cruise, entrambi incarnano la dimensione nostalgica di un altro cinema, dal quale infatti attingono esattamente gli stessi moduli e situazioni narrative.
Immancabile, nei due film, è la scena di buoni e cattivi che si danno battaglia sul tetto del treno con passaggi mozzafiato nei tunnel. O il ritorno della nemesi, un supercattivo che riemerge dal passato – che in Mission: Impossible – Dead Reckoning compare in realtà per la prima volta, con l’altisonante nome biblico di Gabriel (Esai Morales). E l’intera struttura del film si basa sul medesimo meccanismo, il classico oggetto di infinita potenza sulla cui rotta si mettono i protagonisti, insomma il MacGuffin indispensabile per mettere in moto il dispositivo spettacolare degli inseguimenti a rotta di collo. MacGuffin, come in Indiana Jones, diviso in due parti, per rendere ancora più tortuosa – e lunghissima, Mission: Impossible – Dead Reckoning dura 2 ore e quaranta – la lotta senza quartiere.
La differenza è che in indiana Jones l’oggetto magico pesca in un immaginario fantasy e rétro – il leggendario quadrante del destino di Archimede con cui viaggiare nel tempo. Mission: Impossible – Dead Reckoning, a partire dalla sceneggiatura che lo stesso McQuarrie ha firmato con Erik Jendresen, mette in scena invece una minaccia tecnologica spia di incubi più attuali. L’avversario contro cui si scaglia Ethan Hunt è senza volto, una non meglio definita Entità, intelligenza artificiale capace di simulare e manipolare completamente la realtà. Ne fanno le spese, nel prologo, i marinai di un sottomarino russo che fa molto guerra fredda, i quali, credendo di essere attaccati, lanciano dei missili contro un nemico che però esiste solo sul monitor, creato ad arte dall’Entità. E saranno i loro stessi missili a ucciderli.
L’angoscia che si materializza nella metafora di Mission: Impossible – Dead Reckoning non potrebbe essere più chiara: la minaccia finale è la tecnologia derealizzante, con cui gli esseri umani si sono messi da soli il cappio al collo. Ethan Hunt e Tom Cruise l’affrontano attraverso un cinema che si ostina, per quanto possibile, ad affidarsi al realismo corposo e alla fatica concreta degli stunt fatti dal vero da vedere su grande schermo, come si faceva una volta quando era più semplice distinguere il vero dal falso – quel falso interamente digitalizzato delle scenografie che non esistono, in film fatti di pixel disegnati sulla tavolozza di immagini completamente artificiali.
Per questo, a suo modo, pur nella logica spinta da blockbuster, Mission: Impossible – Dead Reckoning intona il peana a un cinema novecentesco, confermato dalle sfumature romantiche di un Hunt legatissimo alla sua squadra (la ritornante Rebecca Ferguson e la nuova Hayley Atwell, più ovviamente i soliti Ving Rhames e Simon Pegg). E proprio nella esibita nostalgia si mostra per quello che è. Un film che riemerge dal passato, esattamente come Indiana Jones: pieno di sequenze anche smaglianti – inseguimenti a Roma in Cinquecento, corse a perdifiato tra le calli veneziane, viaggi sull’Orient Express, simbolo prevedibilissimo di un immaginario vintage e un po’ kitsch –, ma fuori tempo massimo, fedele ai modi consunti di un cinema di spionaggio che poteva andar bene all’epoca bondiana della cortina di ferro.
È un cinema che lancia l’allarme e individua il nemico anonimo e imperscrutabile al quale opporsi: l’Entità, quindi il cinema da intelligenza artificiale contro cui stanno scioperando in questi giorni pure gli attori che temono di essere sostituiti da cloni digitali. La sensazione però è che il cambiamento sia già avvenuto: così Mission: Impossible – Dead Reckoning, col suo storytelling anacronistico non può che mimare una resistenza, quella sì, impossibile.