Casablanca, tutti al cinema per riscoprire un altro modo di essere spettatori

Per celebrare il centenario, la Warner Bros. distribuisce in sala dal 26 al 28 giugno il suo capolavoro più iconico. Facendoci riassaporare il piacere dei miti hollywoodiani in bianco e nero

Casablanca

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Sorprende vedere nella top ten dei film più visti di lunedì 26 giugno Casablanca, che la Warner, per celebrare il suo centenario, ha voluto distribuire per tre giorni, fino a mercoledì 28, scegliendo il suo titolo più leggendario in assoluto, uscito la prima volta nel 1942. Incuriosisce pensare a questi – per carità, poco più di tremila – cinefili giovani e meno giovani (nella mia esperienza di ieri sera soprattutto giovani) che hanno voluto rivedere (o chissà, vedere per la prima volta) i volti di Humphrey Bogart e Ingrid Berman su grande schermo. Ritratti in primo piano – lui sempre scavato nella semioscurità dai riflessi noir con una smorfia dolorosa di disillusione, lei incorniciata da una luce carezzevole che ne fa scintillare la bellezza delicata e preziosa –, entrambe icone perfette di questa figura definitiva del romanticismo che è il film diretto dall’ungherese migrato in America Michael Curtiz.

Figura definitiva, certo. Perché il desiderio degli amanti è destinato a restare inappagato, sacrificato sull’altare del dovere, dato che Ilsa (Bergman) dovrà lasciare Casablanca insieme a Victor Laszlo (Paul Henreid): non moralisticamente perché è suo marito, ma perché è la colonna della Resistenza antinazista, e non lo si può abbandonare per meschine ragioni egoistiche. Come le dice Rick (Bogart) nell’indimenticabile dialogo finale all’aeroporto, “i problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia”, la Seconda guerra mondiale della lotta senza quartiere all’hitlerismo.

L’opportunità di rivedere Casablanca sul grande schermo – nella storica edizione italiana doppiata dalle croccanti voci d’epoca di Bruno Persa (Bogart) e Giovanna Scotto (Bergman) – inevitabilmente porta a domandarsi del perché dello statuto iconico del film, conficcato in un immaginario ormai atemporale. Anche se poi questo genere di domande finiscono per essere oziose e senza risposta. Aveva ragione Gianni Amelio che cominciava così un suo articolo: “Tema: parlaci ancora di Casablanca. Svolgimento: no, grazie, basta. Meglio il silenzio”. Davvero, è impossibile aggiungere qualcosa di originale o di vagamente perspicace su di un’opera sulla quale si è detto tutto, e che proprio per questo è ormai un oggetto talmente stratificato di storie e leggende da risultare completamente impermeabile a qualunque valutazione estetica neutrale.

Coglieva nel segno Umberto Eco in un suo citatissimo articolo degli anni Settanta quando scriveva che “Casablanca non è un film, è tanti film, una antologia”. Lui si riferiva in particolare all’aspetto intertestuale dell’opera, vista la presenza di attori come Conrad Veidt, che subito rimandava al “Cesare notturno e diabolico” del Gabinetto del dottor Caligari, capolavoro espressionista tedesco del muto di cui era stato protagonista, o di Peter Lorre, che si trascinava dietro le immagini del morboso infanticida di M di Fritz Lang.

Più in generale, comunque, Casablanca è antologia di ciò che nei decenni s’è sedimentato sulla pellicola e soprattutto intorno a essa. A partire dalle riletture, parodie e citazioni – ovviamente Provaci Ancora Sam con Woody Allen, o anche Harry Ti Presento Sally, due dimostrazioni di quanta nostalgia mitizzante s’è incrostata su quei fotogrammi in bianco e nero –, sino agli infiniti modi in cui spettatori professionali o semplici appassionati hanno recepito la storia di Rick e Ilsa appropriandosene e rendendola un pezzo della loro (della nostra) vita.

Cose che hanno reso in sostanza ingiudicabile Casablanca. Lo guardiamo non per riattivare uno spirito critico (sarà poi così bello come tradizione vuole? Impossibile capirlo) ma per riandare a memorie, saperi ed emozioni che ci appartengono e ci definiscono. Lo guardiamo per il piacere di trovare o ritrovare quella che nel bene e nel male è una pietra miliare della settima arte. Ma anche per rimettere alla prova il nostro modo di essere spettatori, un esercizio da compiere soprattutto in un’epoca in cui la proiezione al buio e su grande schermo è stata progressivamente sostituita da un consumo eterogeneo, su dispositivi di dimensioni sempre più esigue e con esperienze “spezzettate” che talvolta, come per gli highlights sportivi, si limitano alla visione di singole sequenze e non più dei film nella loro interezza.

Sarà forse per il tipo di prospettiva che indirizza sul fenomeno quel peculiare spettatore che sono io, ormai di mezza età e legato, più per formazione che per nostalgia, a una modalità specifica di fruizione dei film – inevitabilmente novecentesca, e anche inevitabilmente mitizzata oltremisura (la profondità dell’esperienza “religiosa” della visione in sala: sarà poi vero?) –, ma un classico in bianco e nero su grande schermo mi porta non tanto a pormi domande sul film che sto guardando, quanto più in generale sulla natura della visione cinematografica.

Di cui però fa anche parte poi il perdersi dentro una storia, dentro gli sguardi di Rick e Ilsa, i loro sentimenti assoluti e totalizzanti, il marmoreo spirito di sacrificio, quei dialoghi altisonanti e romanticamente perfetti che nessuno sceneggiatore contemporaneo avrebbe l’impudenza di scrivere (Bogart che, ripensando ai giorni felici di Parigi, dice alla Bergman: “Ricordo ogni dettaglio, i tedeschi in grigio, voi in blu”). Tutti elementi che inceneriscono la riflessione e restituiscono lo spettatore al flusso del racconto e delle emozioni, rimettendolo in contatto con la misteriosa magia della fabbrica dei sogni hollywoodiana, capace di rendere un film dalla lavorazione zoppicante – com’è noto, quando cominciarono a girarlo, nel maggio del 1942, c’era solo metà copione scritto, e la Bergman ancora non sapeva se avrebbe lasciato Casablanca con Bogart o con Henreid – un capolavoro immortale, capace pure di dissimulare i cascami letterari di cui è composto, prosciugandoli e restituendoli in una forma che ha le cadenze entusiasmanti del mito.

Sono cose queste, appunto, di cui è più facile rendersi conto se il film lo si vede al cinema, sul grande schermo per il quale era stato pensato dai professionisti coinvolti nella sua realizzazione, dal produttore Hal B. Wallis a Michael Curtiz, dagli attori ai quattro sceneggiatori (i fratelli Julius e Philip Epstein, Howard Koch, il non accreditato Casey Robinson) che rimaneggiarono Everybody Comes to Rick’s, un copione teatrale un po’ così che non piaceva a nessuno e che poi, dopo Pearl Harbour e l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, era diventato la storia patriottica da raccontare a ogni costo. Trasformandosi nel tempo in molto più di questo.

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