Nell’edizione americana di Cinema Speculation di Quentin Tarantino, in copertina campeggia una foto di scena di Getaway! (The Getaway, 1972) che immortala il protagonista Steve McQueen e il regista Sam Peckinpah. Basterebbe questo a ricordare la centralità di questo film in quella stagione, e più in generale dell’intero cinema di un autore oggi tutto sommato sottovalutato come Peckinpah – solo Il Mucchio Selvaggio resta ancora proverbiale, probabilmente equivocandone le ragioni. Il quale cineasta costituiva il cuore di una delle principali linee di tensione del cinema americano tra anni Sessanta e Settanta, che lo studioso Franco La Polla, in un libro teoricamente molto importante, Il Nuovo Cinema Americano (1967-1975), individuava nella definizione di “poetica della violenza” della Hollywood di quegli anni, posta accanto alle altre due poetiche fondamentali, della nostalgia e dell’iperrealismo.
Peckinpah è per definizione il cineasta della violenza, restituita in sequenze di ardito e aggressivo barocchismo, dense di sangue e di un odio minerale di tutti verso tutti. Anche Getaway!, uno dei pochi film della sua carriera non appartenenti al genere western che lo aveva reso famoso, è dominato dalla violenza, un crime movie secco e nichilista. Goffredo Fofi ne sintetizzava la vicenda definendolo un film che “mette in scena l’America contemporanea: prigioni, autostrade, banche, poliziotti e grandi organizzazioni politico-mafiose. La coppia protagonista si mette contro ed è inseguita: la sua logica non è però diversa da quella degli altri, è quella della ricerca di uno spazio economico dentro una giungla”.
Getaway! era tratto da un romanzo breve dello specialista Jim Thompson, a partire dal quale era stata ricavata una sceneggiatura dal giovane Walter Hill, di suo futuro regista di noir contemporanei laconici e fascinosi come Driver l’Imprendibile. La pellicola era soprattutto una creatura di Steve McQueen, gran divo reduce, come ricostruisce puntualmente Tarantino nel suo libro, da tre fiaschi, uno dei quali diretto proprio da Peckinpah, L’Ultimo Buscadero, sorprendentemente elegiaco. La prima scelta come regista fu Peter Bogdanovich, in grande ascesa ma sostanzialmente difficile da immaginare come regista di un crime movie. La stessa sensazione che ebbe McQueen, che lo ricusò preferendo appunto Peckinpah col quale, nonostante le asperità caratteriali di entrambi s’era trovato bene.
Altri elementi di turbolenza sarebbero sorti intorno al film, perché proprio allora McQueen stava uscendo dal matrimonio con Neile Adams, trovando la nuova compagna proprio sul set di Getaway!, cioè Ali MacGraw, reduce dall’enorme successo del lacrimevole Love Story e catapultata, stante l’insistenza del marito, il mogul della Paramount Robert Evans, in una storia criminale nella quale lei diventa Carol, la compagna e sodale del rapinatore di banche Doc. Ruolo quindi apparentemente tutt’altro che romantico, in un film che presenta un sostanzioso numero di sparatorie e copiosi spargimenti di sangue.
Ma, è Tarantino a sottolinearlo, Getaway! è anche una storia d’amore, elemento su cui Peckinpah insiste molto. Questo perché, in un plot che curiosamente ricorda Notorious di Hitchcock, è il detenuto Doc a convincere la moglie Carol ad andare dal potentissimo Jack Benyon per perorare la sua causa, perché l’equivoco uomo d’affari è un membro influente della commissione che decide la libertà vigilata dei detenuti. Naturalmente Carol convince Benyon, con le argomentazioni che possiamo immaginare e che solo Doc, pur scafatissimo, non comprende immediatamente. Sarà poi proprio l’affarista ad assoldare Doc per una rapina da mezzo milione di dollari a una banca.
Getaway! quindi ha una trama duplice. Da un lato c’è la storia di crimine in cui tutti tradiscono tutti, a partire dal partner della rapina imposto da Benyon a Doc, Rudy (Al Lettieri), che prima cerca di ucciderlo e poi si mette al suo inseguimento per vendicarsi e impossessarsi del malloppo. Dall’altro lato c’è la vicenda di una coppia che cerca di ritrovare l’idilliaco equilibrio di un tempo. Cosa in sé non del tutto nuova, in fondo. Perché fa parte della tradizione del cinema americano – da Sono Innocente! (1937) di Fritz Lang allo stupendo La Donna del Bandito (1948) di Nicholas Ray, dal perturbante La Sanguinaria (1950) di Joseph H. Lewis sino al seminale Gangster Story (1967) di Arthur Penn – che il crime movie ruotasse intorno alla coppia criminale. Un genere nel quale quindi violenza, passione, talvolta persino sogno utopico di un’altra vita si mescolano inestricabilmente.
Però è unico il contrasto esasperato tra i due dispositivi, in un film in bilico tra ultraviolenza e romanticismo quasi ingenuo (in questo senso ha ragione Tarantino quando dice che la scelta apparentemente incongrua di Ali McGraw, poco credibile come rapinatrice di banche, diventa plausibile).
Forse per tale ragione Getaway! può sembrare un film non perfettamente in equilibrio, anche in virtù di un finale, diverso da quello del romanzo di Thompson, beffardamente, quasi implausibilmente ottimistico. Quel che importa però di più del film è la rappresentazione, in chiave di sconfortato pessimismo, diremmo quasi etologico, che del mondo offre Peckinpah. La storia parallela che ruota intorno a Rudy è raccapricciante: ferito, si fa curare da un veterinario che poi prende in ostaggio insieme alla moglie, facendosi accompagnare nel viaggio verso il regolamento di conti con Doc. Solo che, nel frattempo, approfitta della donna, attratta dal criminale, sotto gli occhi dell’imbelle marito il quale, contrariamente al Dustin Hoffman di Cane di Paglia, non reagisce e anzi implode completamente.
È questo solo uno dei tratti che rivela lo sguardo che Peckinpah rivolge all’essere umano. Scrive La Polla che “i personaggi di Peckinpah sono in una continua tensione verso la violenza, ogni loro movimento, per quanto normale, quotidiano, sereno, pacifico, riporta al formidabile potenziale di distruzione di cui essi sono capaci nei confronti degli altri”.
E gli stilemi iconografici della sua concezione figurativa della violenza, a partire dal celebre e morboso uso del ralenti, manifestano la negativa e ossessiva prospettiva del regista. Ma c’è dell’altro: perché proprio i famosi ralenti decostruiscono e mostrano la fascinazione della violenza, che nella lentezza artefatta e innaturale dei movimenti ieratici dei corpi crivellati di colpi restituisce una inaspettata bellezza figurativa. La quale da spettatori ci attrae, costringendoci a interrogarci sulla natura del nostro godimento estetico.
In quelle sequenze formalmente compatte la violenza rischia di sembrare qualcosa di ambiguamente attraente. È una cifra tipica della poetica di Peckinpah, che in tanto cinema successivo, privo della profondità della sua contorta riflessione che mescola estetica, morale e politica, si ridurrà al guscio vuoto di una forma altisonante, che diviene affascinante nella sua natura di semplice dispositivo spettacolare. In tal senso, sarebbe necessario recuperare la lezione della messinscena e dell’arte di Peckinpah per capire e arginare un certo modo di fare e fruire il cinema di cui ci siamo nutriti smodatamente negli ultimi decenni.