Non si scappa: con The Flash anche nell’universo dei DC movies, così come nell’ultimo ciclo del Marvel Cinematic Universe, la parola d’ordine è “multiverso”. Il quale in realtà è ormai esorbitato dall’ambito di genere dei cinecomics per trasformarsi in un dispositivo narrativo totalizzante, cui s’è inchinata anche l’Academy, vista la messe di Oscar assegnati a Everything Everywhere All at Once.
Nel caso di The Flash, diretto dall’Andy Muschietti di It e sceneggiato dalla Christina Hodson di Bumblebee, il multiverso entra in gioco perché il giovane Barry Allen ossia Flash (Ezra Miller), dovendosi svolgere il processo nel quale suo padre rischia di essere condannato per l’omicidio della madre, escogita una soluzione disperata. Ossia, approfittando della sua capacità di correre più veloce della luce, compie un viaggio a ritroso nel tempo per intervenire sul passato, sperando che il cambiamento di un microscopico dettaglio restituisca la vita alla madre e salvi il padre dalla galera a vita.
Purtroppo per lui, come previsto da Bruce Wayne (Ben Affleck), che l’aveva messo in guardia, ogni mutazione nella linea temporale è destinata a causare sconvolgimenti irreparabili. Infatti, compiuto il salto all’indietro, Barry si ritrova in un mondo in cui la madre è sì viva, ma nel quale è costretto a fronteggiare enormi effetti indesiderati, a partire da una diversa versione di sé stesso, più giovane e immatura, cui finirà per fare da mentore (diventando bizzarramente un po’ padre di sé stesso).
Barry perderà anche i suoi poteri: e per “tornare al futuro” dovrà perciò cercare di riacquisirli, attraverso complicati esperimenti per i quali sarà necessario coinvolgere Batman, in questa realtà parallela interpretato da Michael Keaton. Naturalmente la linea principale del racconto finirà per incrociarne un’altra, con l’intervento dell’immancabile supercattivo, Zod (Michael Shannon, decisamente sprecato).
La struttura da Ritorno al Futuro è smaccata, al punto che, per i più distratti, il film di Robert Zemeckis viene platealmente citato, anche se in questo mondo leggermente diverso non è stato interpretato da Michael J. Fox bensì da Eric Stoltz (che fu effettivamente la prima scelta e cominciò pure a girarlo). The Flash è la dimostrazione, ancora una volta, che gli anni Ottanta non muoiono mai, costituendo il motivo di ispirazione essenziale dell’immaginario contemporaneo. E comunque al netto di una narrazione farraginosa, e di una qualità decisamente rivedibile della CGI, mi sembra siano tre gli aspetti da sottolineare nel film di Muschietti.
Il primo è l’attenzione, esagerata, che ormai questi film hanno per la loro fandom, in racconti che s’inchinano fin troppo alle aspettative degli appassionati nella speranza di catturarne l’attenzione. Il modello e case history di riferimento è ovviamente Spider-Man: No Way Home, che ha ottenuto incassi stratosferici in un momento delicatissimo per l’industria dell’intrattenimento – subito dopo il lock-down per il Covid – riunendo nella stessa vicenda gli Spider-Man di tre cicli, Tom Holland, Andrew Garfield e Tobey Maguire, con un potente effetto nostalgia che ha rinsaldato il senso di appartenenza degli spettatori, felici di muoversi dentro un universo familiare, ricco di riferimenti al passato emotivamente coinvolgenti. The Flash fa lo stesso, a partire dalla presenza iconica di Michael Keaton (“Sono Batman!”), . Ma numerose sono le sorprese e i ritorni – per ragioni di spoiler ovviamente non li riveleremo –, in carne e ossa e in digitale. Ritorni tutt’altro che indispensabili, semplici omaggi per i fan.
Il secondo elemento, a proposito di anni Ottanta, riguarda il vecchio gusto postmodernista per la citazione, la strizzatina d’occhio allo spettatore ferratissimo sulla cultura pop, che si diverte a ritrovare disseminati nel racconto rimandi a quell’universo di narrazioni che costituiscono l’architrave del suo sapere. Così, all’interno del meccanismo multitemporale di The Flash, è divertente per il pubblico scoprire che nel mondo dell’altro Barry Allen, l’eroe di Ritorno al Futuro è Eric Stoltz è, mentre Michael J. Fox è il divo di Footloose e Kevin Bacon il pilota di caccia di Top Gun. E a questo punto, piuttosto che limitarsi al “non lo famo ma lo dimo” alla Boris, il film avrebbe dovuto avere il coraggio di mettere davvero in scena i film di questa realtà parallela.
Il terzo aspetto è naturalmente l’uso del multiverso. Il quale, nella sua proliferazione potenzialmente illimitata di linee narrative, sembra sempre più costituire una (involontaria?) riflessione di secondo grado sulle strategie produttive dell’industria dell’intrattenimento contemporanea. Infatti tutti i reboot, prequel, sequel germinati all’interno degli stessi franchise – e tra contenitori e linguaggi diversi: film, serie tv, animazione, videogame, social media – alla fin fine non sono altro che delle versioni riverniciate della stessa storia, riscritture che approfittano dell’opportunità di ripartire (quasi) da zero per riproporre e rivendere lo stesso prodotto.
Cambiando qualche dettaglio e il protagonista, passando da Tobey Maguire a Andrew Garfield a Tom Holland, si può riattivare la mitologia di Spider-Man, rinfrescando una storia che riparte dall’inizio, così da intercettare una nuova generazione di spettatori. In più, grazie alla logica dell’incastro di diverse linee temporali, diventa possibile mettere insieme nella stessa storia i protagonisti dei diversi cicli, e così riunire tutti i pubblici in ottica intergenerazionale. Ognuno di essi nel film troverà nostalgicamente un pezzetto delle sue memorie personali, che sarà ben lieto di condividere con le generazioni più giovani e più anziane. Tutte convinte che il proprio sia il “vero” Spider-Man.
Funziona alla stessa maniera il multiverso, dispositivo/giacimento virtualmente infinito, all’interno del quale si può generare qualsiasi storia parallela creando una serie di deviazioni dalla linea principale, senza rischi di inverosimiglianza logica del racconto o della psicologia del personaggio. Perché, nel salto quantico da una dimensione all’altra, il protagonista può tranquillamente avere caratteristiche completamente diverse da quelle cui siamo abituati da spettatori, senza che questo crei stridenti contraddizioni.
Everything Everywhere All at Once ha mostrato benissimo come funziona l’ottovolante narrativo del multiverso, con continui cambi di scena, location, caratteri, letteralmente ogni due secondi, senza l’assillo di dover salvaguardare qualche coerenza strutturale, perché è nella natura del dispositivo multitemporale che tutto muti in un batter d’occhio. Anzi, il divertimento sta esattamente in questa fluidità totipotenziale, secondo cui qualunque cosa può accadere e nulla è per sempre, e passato presente e futuro non si susseguono necessariamente in quest’ordine. È la ragione per cui in The Flash, Barry Allen può immaginare di riportare in vita la madre defunta. I film sul multiverso sono i manuali di sceneggiatura dell’era del reboot, espressione e uovo di colombo delle strategie creative e di sfruttamento commerciale di un’industria dell’intrattenimento affamata di storie replicabili.
Eppure proprio Batman in The Flash mette in guardia Barry Allen, spiegandogli: da un lato, che alcuni eventi sono immodificabili, e nonostante i nostri sforzi si ripeteranno sempre, in qualunque universo alternativo; e dall’altro, sottolineando come questa illusione di onnipotenza corra il rischio di distruggere la trama di ogni cosa. E quindi, fuor di metafora, di giungere a racconti in cui da spettatori (o lettori) ci interessa fino a un certo punto quel che accade, proprio perché la linea narrativa è infinitamente riscrivibile. Così però si perde la saldezza mitopoietica delle grandi storie e dei grandi personaggi della letteratura, del teatro e del cinema di una volta, con quella stabilità esemplare capace, attraverso la finzione, di insegnare qualcosa sullo stare al mondo.
Rispetto a questi due poli The Flash si pone pilatescamente a metà del guado. Il monito dell’uomo pipistrello nel film si traduce effettivamente in svolte narrative dolorose che non cambiano, il che esclude l’illusione che tutto sia possibile. Dall’altro però il dispositivo narrativo da multiverso indugia nella sua architettura esageratamente cervellotica di strati che s’intersecano: tutto movimentato ed elettrizzante, ma con la coerenza logica di un castello di carte e la profondità di un gioco un po’ puerile.