Everything Everywhere All At Once è stato l’inatteso protagonista della stagione dei premi cinematografici a stelle e strisce. La lista interminabile dei riconoscimenti comprende 2 statuette su 6 nomination ai Golden Globes, 5 su 14 ai Critics Choice Awards, e poi 8 candidature agli Independent Spirit Awards, 10 ai Bafta, 5 ai SAG, il tutto coronato dalle 11 nomination agli Oscar. Naturale perciò la decisione di riportarlo nelle sale: il film negli Usa è tornato in 1400 cinema, ricominciando a macinare incassi ragguardevoli – il box office globale è a tutt’oggi di 105 milioni di dollari, un record per quanto riguarda la A24 che l’ha prodotto –, mentre in Italia, dove alla prima uscita a ottobre aveva ottenuto ben poco, 370mila euro, è ridistribuito a partire dal 2 febbraio.
Era onestamente difficile prevedere un simile successo, considerando anche il fatto che i due giovani registi trentacinquenni Daniel Kwan e Daniel Scheinert (autoribattezzatesi con il nome collettivo di Daniels) avevano alle spalle un solo altro film, Swiss Army Man (2016), storia di un naufrago su un’isola deserta che si salva utilizzando come mezzo propulsivo le flatulenze di un cadavere destinato a diventare il suo migliore amico.
Ed è significativo che l’apprezzamento globale di Everything Everywhere All At Once sia giunto non smussando scorrettezze e grossolanità, ma confermandole e se possibile esasperandole. Inaspettatamente un’opera dallo stile spesso demenziale e con punte di autentica volgarità (basterebbe citare i combattenti di arti marziali in costume adamitico e con strani oggetti introdotti nei loro più reconditi orifizi) è riuscito a incontrare il favore degli elettori dei premi, solitamente di gusti morigerati – su questo incide probabilmente, in particolare per gli Oscar, il netto cambiamento nella composizione delle giurie, che negli ultimi anni hanno accolto migliaia di nuovi membri giovani e provenienti da ogni angolo del pianeta.
Ed ecco perciò che, dopo il successo agli Oscar 2020 di un film altro e globale come il coreano Parasite, stavolta il ruolo di favorito nella notte delle statuette sarà assunto da una pellicola sì di produzione statunitense, ma incentrata sulla vicenda di una famiglia di origine asiatica. I protagonisti di Everything Everywhere All At Once sono Evelyn (Michelle Yeoh) e il marito Waymond (Ke Huy Quan) i quali, giunti negli Stati Uniti dalla natia Cina, gestiscono tra mille traversie una lavanderia a gettoni. Li troviamo nel bel mezzo delle difficoltà della loro vita di ogni giorno: una relazione ormai logorata, i rapporti tesi tra la madre e la figlia Joy (Stephanie Hsu), la visita dell’ingombrante padre di Evelyn (James Hong) e, come se non bastasse, la dichiarazione dei redditi da presentare all’IRS, che ha il volto occhiuto e pedante di una sgradevole Jamie Lee Curtis.
La cornice realistica però esplode quasi subito, perché il mondo è sull’orlo del collasso, e solo Evelyn è in grado di salvarlo. A rivelarglielo è Waymond: il quale però non è suo marito, ma una sua versione proveniente dal pianeta Alpha, dove l’omologa di Evelyn ha inventato una tecnologia che consente il passaggio da una dimensione all’altra del multiverso, innestandosi nel corpo dei propri “doppi” che vivono nelle altre realtà. In pericolo perciò non è un singolo mondo, ma l’intero multiverso, che la versione nichilista di Joy proveniente da Alpha ha intenzione di distruggere.
Non si può dire di più della trama di Everything Everywhere All At Once, ma tanto basta sicuramente a cogliere l’eclettismo del racconto, che prende l’espediente ormai ben noto grazie ai film Marvel del multiverso e lo impiega con un approccio da cinema dei ragazzacci, a tratti grossolano e sopra le righe, conducendo il gioco fino alle estreme conseguenze in una storia che approfitta dei passaggi interdimensionali consentiti dalla peculiare logica narrativa per compiere continui salti da uno scenario all’altro, come viaggiassimo su di un ottovolante eccitante e inarrestabile.
L’intuizione vincente dei Daniels è stata quindi quella di prendere il dispositivo reso popolare dai film supereroistici per tirare fuori da quell’inesauribile giacimento narrativo tutte le combinazioni possibili di storie, anche sovrapposte e interferenti, sperimentando potenzialità che la Marvel aveva finora indagato solo parzialmente, più attenta alle opportunità offerte in termini di effetti visivi fantasmagorici che in quelle dell’entropia narrativa. L’approccio di Everything Everywhere All At Once è assai più disinibito ed elastico: basterebbe a testimoniarlo la bizzarra trovata del pianeta in cui i personaggi assumono le fattezze di sassi coscienti che discettano filosoficamente sul senso di un’esistenza non antropomorfa.
Detto questo però, bisogna aggiungere che tutto sommato il film non va oltre le sue trovate brillanti, con un viavai continuo di provocazioni, toni sopra le righe e intuizioni eterogenee che non si saldano su di un’idea di cinema che si issi al di sopra del gioco fine a sé stesso.
L’operazione dei Daniels ruota sostanzialmente intorno a un aggiornamento del cinema degli anni Ottanta – richiamato sin dalla presenza del ritrovato Ke Huy Quan di Indiana Jones e dei Goonies e dell’iconico James Hong di Grosso Guaio a Chinatown – e dei suoi canonici espedienti postmodernisti (pastiche stilistico, ironia, citazionismo, propensione metacinematografica), cui la cornice offerta dal multiverso fornisce un’opportunità di uso e riuso dei materiali preesistenti virtualmente infinito.
La vocazione al mescolamento dei codici tipica del postmodernismo viene incredibilmente amplificata dal concetto di multiverso. Il quale da un lato si offre come guardaroba illimitato di generi, stili e storie. E dall’altro, in virtù della sua logica fondata sulla coesistenza dei mondi, consente il passaggio continuo dall’uno all’altro, in un montaggio senza sosta di frammenti eterogenei, senza eccessive preoccupazioni di coerenza narrativa. Ne esce è un’opera dalla struttura mutante, in cui l’ambientazione può cambiare a ogni istante in maniera quasi subliminale e con ripetuti scarti spaziotemporali, che a ben vedere finiscono per mimare le modalità di fruizione degli spettatori iperconnessi contemporanei, abituati sui loro dispositivi a passare dall’interazione su una piattaforma social a un video incrociato con un videogioco e un’applicazione di gamification.
Il modello con cui è costruito Everything Everywhere All At Once si avvicina molto alla user experience degli utenti di oggi, e alla loro bassa soglia di attenzione sollecitata e usurata dal perenne slittamento da una tipologia di contenuto e contenitore all’altra. Che un film simile piaccia o meno dipende dalle conoscenze, gusti e sensibilità personali. Qualcuno troverà estremante divertente e arguto il frullatore narrativo dei Daniels, che travolge con l’accumulazione interminabile di espedienti, dal mondo in cui le persone hanno le dita a forma di wurstel alla minaccia apocalittica con le fattezze di una fragrante ciambella-buco nero. Ed è ovvio che in tanti si compiaceranno a riconoscere le innumerevoli citazioni, che pescano un po’ dappertutto, da 2001 a In The Mood For Love, da Matrix a Jackie Chan, in un film costruito soprattutto su materiali di riporto.
A me il gioco è sembrato più che altro sfiancante, sconclusionato e puerile, tragicamente traballante nelle sue ambizioni addirittura da racconto esistenziale filosofico. E tutto sommato, a ben guardarlo, al netto delle presunte scorrettezze scatologiche e dei telefonati aggiornamenti in tema inclusività e diversità – la centralità della comunità asiatica, i rapporti omosessuali –, alla fine Everything Everywhere All At Once si chiude su una visione tradizionalista e conservatrice, col suo peana ai valori della coppia indissolubile, dei buoni sentimenti e dei legami familiari, cui i nuovi costumi offrono appena una riverniciatura di superficie. Un risultato ipocrita e gattopardesco che è forse il segreto del successo travolgente ottenuto nella stagione dei premi.