Mettiamola così: qualunque cosa si possa pensare dei film di supereroi, croce e delizia di critici e addetti ai lavori, è impossibile non salutare con sollievo i risultati al botteghino del primo giorno di programmazione di Black Panther: Wakanda Forever, che ieri ha intercettato quasi centomila spettatori, capace di riportare in sala i giovanissimi dati per dispersi – chiunque abbia frequentato i cinema negli ultimi mesi, anche in casi tutto sommato di successo come La Stranezza e Il Colibrì, sa che l’età media del pubblico è sempre più alta.
Comunque, che il film diretto dal trentaseienne Ryan Coogler fosse destinato a diventare un fenomeno era inevitabile, per più di una ragione. Il primo episodio della saga, infatti, Black Panther, sempre per la regia di Coogler, nel 2018 aveva ottenuto un risultato al botteghino stratosferico, 1,3 miliardi di dollari. Ma soprattutto era assurto, principalmente negli Stati Uniti dove aveva raggranellato più della metà degli incassi globali, ad autentico fenomeno culturale, sbandierato come un vessillo dell’orgoglio nero e di Black Lives Matter, per la sua capacità di creare un’epica nobile e altisonante con una storia ruotante quasi esclusivamente intorno a una comunità di colore. Un racconto, oltretutto, dalle risonanze inequivocabilmente politiche – basterebbe a dimostrarlo l’ispirato discorso pacifista alla sede dell’Onu del re T’Challa (Chadwick Boseman), indirizzato a tutti ma in primo luogo a una nazione nera senza distinzioni di classe o paese.
I risultati, non solo in termini di box office, avevano ripagato lo sforzo: Black Panther ottenne 7 nomination all’Oscar, compreso miglior film, prima pellicola supereroistica a riuscirci nella storia, conducendo anche alla vittoria la costumista Ruth E. Carter e la scenografa Hannah Beachler, donne e di colore, le prime ad aggiudicarsi la statuetta in quelle categorie.
Il caso poi ha voluto che agli aspetti intenzionali della narrazione se ne aggiungesse un altro inintenzionale, la tragica morte ad appena 43 anni nel 2020 del protagonista Chadwick Boseman. Una scomparsa recepita con un senso di commozione di solito tributato agli autentici leader, in una sorta di sovrapposizione tra l’identità dell’attore e il ruolo da lui interpretato. Così all’epica e all’etica la saga di Black Panther ha aggiunto la nobiltà malinconica dell’elegia e del cordoglio, trasfigurando l’aspettativa collettiva per Black Panther: Wakanda Forever in qualcosa di più vasto che la semplice attesa del canonico blockbuster spettacolare.
Con un così pesante fardello sulle spalle, era quasi inevitabile che il film, che Coogler ha dovuto riscrivere dalle fondamenta insieme a Joe Robert Cole, finisse ostaggio di una certa magniloquenza, tradita anche dalla durata obbiettivamente esagerata, due ore e quaranta minuti – il più lungo film Marvel dopo Avengers: Endgame – che tengono insieme l’omaggio commosso a Boseman, concentrato nel prologo ed epilogo, e la ridefinizione sempre in chiave epica del racconto principale.
Il quale, cogliendo tracce già presenti nel primo episodio – la forte presenza delle donne, fondamentali nella gerarchia della famiglia reale e nell’esercito del regno di Wakanda – punta alla costruzione di una narrazione tutta in chiave femminile. Il centro della scena è assunto dalla leader predestinata per lignaggio, la sorella di T’Challa, Shuri (Letitia Wright), la regina madre Ramonda (Angela Bassett) svolge il ruolo della bussola morale – infatti il film si apre con un suo severo intervento all’Onu in cui si rifiuta di condividere il prezioso vibranio con gli altri paesi, Stati Uniti e Francia per primi, conoscendone le mire belligeranti –, e ruoli sempre più importanti rivestono Okoye (Danai Gurira), fiera e leale generale delle forze speciali, Nakia (Lupita Nyong’o), già compagna di T’Challa, la new entry Riri (Dominique Thorne, che compendia didascalicamente tutte le caratteristiche richieste, scienziata geniale, nera, donna, giovanissima.
La parte dell’antagonista è assegnata al regno equoreo di Talokan, sorta di mitica Atlantide in salsa Marvel, con leader vigoroso e pluricentenario, Namor (Tenoch Huerta), la cui storia personale rimonta addirittura al Cinquecento dei Conquistadores spagnoli – che così si aggiungono a quel ritratto immodificabile, secolo dopo secolo, dei paesi occidentali ambiziosi, avidi e guerrafondai.
Black Panther: Wakanda Forever diventa la storia di un conflitto incentrato sul possesso di un materiale prezioso e scarsamente reperibile, entrando inevitabilmente in risonanza con il nostro presente. Anche se però poi la chiave di lettura politica deve fare i conti con lo svolgimento enfatico e un po’ meccanico della vicenda, che segue tutte le prevedibili tappe del viaggio dell’eroe, anzi dell’eroina, con antagonisti e aiutanti, il mezzo magico da racconto fiabesco (l’erba a forma di cuore che dona poteri straordinari; ma anche le onnipresenti tecnologie), il pericolo dello smarrimento morale e il confronto col proprio lato oscuro, e infine la vittoria, contro il nemico e i propri dilemmi etici. Così, una volta ristabilito l’ordine su presupposti parzialmente nuovi, la vicenda può concludersi com’era iniziata, rinnovando l’omaggio a T’Challa/Boseman.