Silvio Berlusconi, ossessione italiana

Tra impresa, tv e politica il Cavaliere ha scandito la storia del paese, plasmando l’immaginario della nazione. Protagonista di un film diretto e interpretato da lui, che da cittadini (e spettatori) abbiamo guardato ipnotizzati per quarant’anni

Silvio Berlusconi

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Adesso che Silvio Berlusconi è scomparso, appare singolare e quasi simbolico il fatto che la sua immagine pubblica, che coincide in gran parte anche se non del tutto con la sua lunga vita politica, sia destinata a essere consegnata e inscritta dentro una coppia di eventi che si assomigliano, almeno esteriormente. Ossia i due videomessaggi, entrambi “interpretati” da dietro una scrivania, uno relativo alla famosa discesa in campo del 26 gennaio del 1994, l’altro del 6 maggio scorso, dall’ospedale San Raffaele nel quale era ricoverato da un mese.

Il primo comunica l’ottimismo di un’avventura nascente. Il secondo, nonostante le intenzioni, ha un che di sinistro e malinconico, al punto che intervistato da Repubblica lo storico regista di Berlusconi Fabrizio Gasparotto, che era dietro la telecamera nel 1994, ha criticato aspramente il filmato: “Ci sono rimasto male nel vedere il mio presidente così sofferente. Lui ha sempre trasmesso speranza agli altri. In questo video, mi spiace dirlo, esprime compassione. Bisognava evitare scientificamente di farlo vedere”.

Eppure fino alla fine Silvio Berlusconi ha voluto essere presente, gestendo ancora una volta consapevolmente, come sempre, la sua immagine pubblica, lui che è stato in grado di condurre il paese in una nuova era della comunicazione mediatica e politica. Un uomo attentissimo alla definizione del proprio mito, saldato in una narrazione il cui capolavoro resta forse il “fotoromanzo” Una Storia Italiana, distribuito in occasione delle elezioni politiche del 2001 – che vinse –, in cui emerge l’immagine dell’uomo di successo che si è fatto da sé, come dimostra la fotografia divenuta icona del giovane Silvio chansonnier negli anni Cinquanta, orgoglioso di mostrare la gavetta di chi è venuto dal basso e s’è industriato in mille lavori.

In un libro molto acuto, Il corpo del capo, Marco Belpoliti ha sottolineato la cura posta da Berlusconi nella costruzione dell’immagine di sé, che passa anche attraverso un gruppo di fotografie scattate da Evaristo Fuser tra anni Settanta e Ottanta, quando la sua figura, col lancio di Canale 5, sale pienamente alla ribalta pubblica. E lui punta sul ritratto del tycoon seducente ma serio, volitivo e deciso, dotato degli strumenti espressivi del divo che sa bucare lo schermo e comunicare col pubblico, rendendo palpabile la forza che emana dalla sua postura, e dallo sguardo, dice Belpoliti, che “indica sempre qualcosa di esteriore”, con una tensione quindi rivolta non all’introspezione ma al fare, nella logica propositiva e realizzativa del grande imprenditore. Anche se poi, e questa è un’altra caratteristica dell’uomo che, come si è soliti dire, sa parlare alla pancia del paese, Berlusconi non perde mai il gusto dell’ironia, come in un’altra fotografia in cui, sigaretta in mano e cappello sulle ventitré, gioca esplicitamente a fare il bel tenebroso da film.

Senza dubbio – aggiunge Belpoliti – la sua presenza davanti all’obiettivo è quella di un attore, un attore consumato che manifesta ciò che prova in rapporto all’effetto che si prefigge di raggiungere”. E questa predisposizione alla messinscena raggiunge naturalmente l’apice con la discesa in campo, con l’inizio di quella stagione che, come ha scritto giustamente Filippo Ceccarelli nel suo enciclopedico Invano, “spostò le forme della politica al di là di qualsiasi immaginazione dando vita alla più straordinaria storia di potere degli ultimi settant’anni”.

Da quel momento l’immagine di Silvio Berlusconi esplode persino, si fa caleidoscopica, sempre impiegando in chiave innovativa gli strumenti della comunicazione politica. Il primo video ne è naturalmente esempio clamoroso, con il finto ufficio ricostruito su di un set – ma anche l’ultimo video è su un set, con la stanza del San Raffaele trasformata alla bell’e meglio in studio presidenziale –, e lo è anche l’uso inedito, poi imitatissimo da tutti i partiti, dei manifesti elettorali sei per tre, sfruttati nella loro forza iconica da schermo cinematografico in cinemascope, sui quali rifulge l’immagine dello statista dai mille volti, che rimarca il suo essere uomo del fare, ma che sa anche trasformarsi in “presidente operaio”, come fosse un uomo della strada qualunque.

E volle esserlo, vicino agli uomini della strada, anche in quell’altra grande operazione mediatica che fu la gestione del post terremoto del 2009 a L’Aquila, in cui colse l’opportunità per rinsaldare il legame con la gente comune, in una fase di appannamento personale dopo le tante polemiche per gli scandali sessuali che avevano tenuto banco in quegli anni (cene eleganti, Olgettine, la scriteriata partecipazione al compleanno di Noemi Letizia). Berlusconi conforta i terremotati o pranza con una delle famiglie di sfollati ospitate nella new town voluta dal governo: sono situazioni in cui emerge la sua capacità di seduzione manipolatoria, ma anche di immedesimazione col dolore degli altri, in una continua e inestricabile sovrapposizione tra recita e autenticità, coerentemente con quanto disse di lui una volta Indro Montanelli, che l’aveva avuto editore al Giornale: “È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne”.

Sia attraverso lo stile disinibito e scintillante proposto dalle sue tv, sia mediante il trentennale impegno in politica, Silvio Berlusconi è l’uomo che più di tutti ha sagomato l’identità dell’Italia contemporanea nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, riscrivendo non soltanto l’immaginario del paese, ma anche le forme del comportamento individuale e collettivo – con una etichetta certo abusata si potrebbe parlare di mutazione antropologica.

La parabola della sua incredibile biografia è coincisa con un periodo che ha scandito una cesura fondamentale tra il prima e il dopo, quegli anni Ottanta che segnano la transizione dall’Italia in bianco e nero della dignitosa tv pubblica di Bernabei a un’Italia elettrizzante, a colori e da bere. Un decennio che ha polarizzato letture storiche e giornalistiche, venendo alternativamente additato come l’origine di tutti i mali (prendiamo come esempio un libro di Paolo Morando esemplarmente intitolato 80. L’inizio della barbarie) o alternativamente, secondo interpretazioni più laiche e favorevoli al cambiamento, come il momento in cui il paese è finalmente entrato nella fase dalla società postmoderna e della sue intriganti opportunità, assorbendone linguaggi, aspirazioni e stili di vita.

Questo rivolgimento epocale, chissà, si sarebbe probabilmente realizzato anche senza Berlusconi. In ogni caso lui ne è stato regista e interprete principale, assumendo all’interno di questo quarantennio tutti i ruoli possibili, imprenditore, statista, intrattenitore, comico volontario (le sue famigerate barzellette) e involontario, imitato e dileggiato in ogni modo possibile. Berlusconi ha rappresentato l’ossessione di un paese che ha sempre avuto bisogno di una figura su cui proiettare sogni e tensioni inespresse – al punto che persino nella Prima Repubblica di una politica volutamente grigia e non leaderistica aveva individuato nelle pieghe del misterioso e sfuggente Giulio Andreotti il simbolo capace di caratterizzare una fase storica. Il Cavaliere però con la sua esuberante personalità ha offerto ben altro materiale, un piatto postmoderno succulento col quale non ci siamo stancati mai di banchettare per decenni, certi ogni volta di assaporare qualcosa di diverso.

Anche per questo, a scorrere tutte le imitazioni che ne sono state fatte, da Sabina Guzzanti al Silvio Berlusconi smemorato dell’ultimo Maurizio Crozza, e anche a rivedere i film e i documentari girati su di lui, si fatica a trovare chi ne abbia saputo compiutamente comprendere e restituire lo spirito. Le intuizioni maggiori mi sembrano contenute in due film. Il primo è Il Caimano di Nanni Moretti, in cui l’attore e regista, pur con una coloritura eccessivamente apocalittica, interpreta senza assilli mimetici il Cavaliere, cogliendo il senso di quella citatissima affermazione attribuita a Giorgio Gaber (ma pare sia del cantautore Gian Piero Alloisio), “Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”, facendo l’unica cosa possibile per chi vuole riflettere onestamente su di lui e un’intera stagione politica, ossia assumere su di sé il “corpo del capo”, senza chiamarsi moralisticamente fuori.

Il secondo film è l’invisibile dittico Loro 1 e 2 di Paolo Sorrentino, uscito nel 2018 e cancellato dalla memoria collettiva, mai trasmesso in tv, del quale mi risulta non esistere nemmeno un dvd italiano. Eppure, dopo il divo Giulio, qui Sorrentino, supportato da un mimetico Toni Servillo, offre un’altra operazione di rilettura chirurgica, in cui coglie la natura multiforme del personaggio, come nella sequenza del dialogo in cui Servillo interpreta sia Silvio Berlusconi che il suo socio Ennio Doris.

È già un Berlusconi doppio insomma. Che poi diventa plurimo, insieme milanese e napoletano, nell’altra scena in cui s’accende di un improvviso, paradossale accento partenopeo quando decide di rimettere alla prova il suo leggendario talento da venditore, telefonando a una persona a caso estratta dalla sua biblioteca composta degli elenchi telefonici delle città dell’intera nazione, un dettaglio che solo Sorrentino avrebbe saputo immaginare. Ma appunto, quel Berlusconi è un uomo capace di assumere qualunque ruolo perché ha i recapiti di tutti gli italiani e sa come blandirli, ne conosce a menadito come nessun altro psiche e carattere, grazie a una medianica, luciferina sintonia con la pancia del paese che ha alimentato per quasi mezzo secolo con la sua mirabolante vicenda da numero uno dell’impresa, tv, calcio, politica.

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