Per celebrare i David di Donatello, la cui 64esima edizione andrà in scena domani sera, la Rai ha previsto per il mese di marzo una programmazione dedicata ai film italiani che hanno segnato la storia recente del premio più prestigioso del cinema italiano. Dopo Habemus Papam, Gomorra, La tenerezza è la volta de Il Divo di Paolo Sorrentino, trasmesso in prima serata alle 21.10 su Rai Movie, che nel 2009 ottenne ben 16 candidature e 7 statuette, a partire da quella a Toni Servillo, miglior attore per la sua interpretazione di Giulio Andreotti. Ed è davvero un’incarnazione magistrale la sua, punto necessario dal quale partire per raccontare un film che ha un posto centrale nella filmografia di Sorrentino, ancora oggi il suo esito più alto e quello che ha definito al meglio le coordinate del suo stile.
Il Giulio Andreotti di Toni Servillo non ha molto a che vedere, per fare qualche esempio, con il Dick Cheney di Christian Bale in Vice – un film per il quale il regista Adam McKay ha detto di essersi ispirato proprio a Il Divo – o con il Bettino Craxi di Pierfrancesco Favino di Hammamet di Gianni Amelio, di cui è circolata nei giorni scorsi una sbalorditiva foto di scena, entrambi somigliantissimi agli originali. Servillo invece crea un Andreotti senza ossessioni mimetiche. Certo, ne prende alcuni tratti fondamentali: le orecchie rivolte verso il basso, la testa incassata nelle spalle, la postura incurvata e irrigidita (un lavoro per cui i truccatori Aldo Signoretti e Vittorio Sodano ottennero la nomination all’Oscar).
Per il resto però il personaggio diventa una creatura di Servillo, con delle assonanze che non si traducono mai in un calco del vero Andreotti. Un essere quasi fantastico, sin dalla prima inquadratura in cui lo vediamo trafitto dagli spilli dell’agopuntura, una singolare creatura antropomorfa che, disse Jay Weissberg su Variety, “ha il volto paffuto che ricorda il pallore della pelle d’un elefante, con i lineamenti impenetrabili a metà tra Boris Karloff e Buster Keaton”.
Come scrisse Gianni Canova, Il Divo non è cinema della realtà, non punta alla riproduzione fotografica delle cose così come sono. Per cui Servillo non imita Andreotti: è lui, con la sua irripetibile storia personale, le caratteristiche somatiche fuori dell’ordinario, e insieme è qualcosa di più, un simbolo attraverso cui costruire una riflessione sul tema del potere in chiave sovraindividuale, sebbene filtrata attraverso l’accezione politica, romana, papalina che Andreotti ha incarnato.
Quello che fa Servillo con Andreotti, lo fa Sorrentino con il film. Ne Il Divo ci sono tutti i fatti, l’ultimo governo Andreotti, la sua candidatura alla presidenza della Repubblica, Tangentopoli, il processo per concorso esterno in associazione mafiosa, ma non ci sono né la cronaca né l’inchiesta. C’è la storia d’Italia, soprattutto la storia del potere in Italia, ma trasfigurata e reinventata da uno stile che non ha assilli realistici. I vari accadimenti sono disposti non secondo una progressione narrativa lineare, ma disposti uno dopo l’altro, sequenze autoconclusive dalle quali il ritratto d’insieme emerge in virtù della coerenza dell’approccio visivo, segnato dalla marcata impronta autoriale di Sorrentino.
Il Divo comincia come un gangster movie, con gli omicidi eccellenti collegati alla vicenda di Andreotti – Mino Pecorelli, Roberto Calvi, Michele Sindona, il generale Dalla Chiesa –, ma il film d’azione lascia immediatamente posto a un racconto rapsodico fatto di tasselli sparsi, che invece di dar vita a un’indagine lucida e consequenziale, costruisce un enigma ricco di interrogativi. Al centro del quale campeggia quel segno vuoto e imperscrutabile che è Andreotti stesso, col suo vocino flebile e impersonale, la freddezza quasi d’automa, l’impermeabilità al caravanserraglio di facce, politicanti, loschi figuri che gli girano intorno.
Il Divo non ha le risposte rassicuranti tipiche del cinema civile, non dirada le nebbie ma si getta a capofitto dentro i punti oscuri della storia d’Italia, che tali rimangono: certo azzardando delle ipotesi, che restano paradossali come il grottesco e chissà se mai avvenuto bacio tra Andreotti e Totò Riina o il tesissimo monologo sull’intreccio politico e metafisico di bene e male. Ma non sono scene che gettano luce sulla verità, non la sua e tantomeno quella del paese che ha rappresentato. E infatti Andreotti è quasi sempre ritratto nel buio di una solitudine – “Andreotti stringi stringi è sempre stato un uomo solo”, dice la signora Enea, sua fedele assistente (Piera Degli Esposti) – che è quella di un individuo consapevole d’essere un attore sul palcoscenico – e tante sequenze sono apertamente impostate secondo una logica di messinscena teatrale.
Il risultato è un film plumbeo, immerso in quella perenne notte capitolina che ha scandito la pluridecennale storia politica italiana fatta di segreti, trame, depistaggi, accoppiamenti poco giudiziosi. Tante cose e molto complicate per le quali un cinema che sia minimamente adulto non può illudersi di trovare delle risposte preconfezionate. Quel che può fare, invece, è mettere in scena uno spettacolo che riproduca fedelmente non i fatti ma lo spirito della storia, di cui Andreotti, arci-italiano e insieme, per la sua eccezionalità caratteriale, anti-italiano, finisce per essere uno dei personaggi più rappresentativi. La maschera (o meglio la sfinge) della perenne tragicommedia italiana.