Spider-Man: Across The Spider-Verse è un’avventura dello sguardo

La seconda puntata della saga dello Spider-Man nero è un caleidoscopio di invenzioni visive. Un teen movie con una raffinata anima metanarrativa. Mai pedante e dal ritmo trascinante

Spider-Man: Across The Spider-Verse

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Spider-Man: Across The Spider-Verse è la conferma che il film d’animazione è l’autentica dimensione di questo genere di storie, molto più adatta del live action alla sperimentazione e alla moltiplicazione stilistica caratteristica di tale immaginario. E infatti il secondo capitolo, in perfetta continuità col predecessore Spider-Man: Un Nuovo Universo, assume il concetto di multiverso che ne è alla base non semplicemente come un moltiplicatore delle opportunità narrative, ma come un generatore infinito di forme visive che si intrecciano in maniera inestricabile.

Prima di ogni altra cosa, Spider-Man: Across The Spider-Verse è un’avventura dello sguardo, che trasporta lo spettatore in una dimensione sfolgorante, persino bulimica nella sua propensione all’accumulazione senza posa di segni iconici, in un viaggio dall’altra parte dello specchio che osa il barocchismo figurativo più sfrenato, incrociando il surrealismo con la street art, conducendoci in un luogo in cui ci si può imbattere in uno Spider-Man anarco-punk e anticapitalista che sembra un graffito (e che assomiglia, direi, a Jean Michel Basquiat).

Il film diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson e scritto, insieme a David Callaham, dai responsabili del primo episodio Phil Lord e Christopher Miller, amplifica persino le possibilità offerte dal multiverso, partendo sempre però da una vicenda a misura di teenager, stavolta moltiplicata per due, perché Miles Morales e Gwen Stacy assumono un ruolo paritetico, alle prese con le loro vite straordinarie, eroi ragazzini con responsabilità enormi sempre sul punto di franare loro addosso, in cui le angosce e i turbamenti dell’adolescenza (legati a famiglia, senso della perdita, trauma della crescita) assumono simbolicamente la forma delle grandi sfide che devono affrontare per assicurare la sopravvivenza del mondo (anzi, dei mondi del multiverso).

Così, posti di fronte alla minaccia rappresentata da un nuovo pericolosissimo nemico, la Macchia, Miles e Gwen finiscono proiettati nello Spider-Verse degli infiniti uomini ragno, dal quale si capisce che il multiverso non è un capriccioso e caotico moltiplicarsi di storie, bensì una rete di legami, un canone soggetto a regole precise e da non modificare, come spiega una sorta di leader degli Spider-Man, Miguel, che nella sua fedeltà alla legge immutabile del tutto assume però tratti cupi intolleranti, che spingono a chiedersi chi siano davvero i buoni e chi i cattivi in questa vicenda.

In Spider-Man: Across The Spider-Verse l’idea del canone – e dei delicati, complessi legami che la sorreggono – allude abbastanza naturalmente al concetto stesso di narrazione, in una scoperta tensione autoriflessiva del racconto, che rielabora e analizza i propri codici espressivi (mette subito sul chi va là lo spettatore Gwen, che all’inizio, quando guarda un Balloon Dog, una di quelle tipiche sculture kitsch di Jeff Koons che sembrano enormi palloncini, dice che più che un’opera è una meta-opera d’arte, così come l’intero film).

Proprio Miles è la cellula impazzita fuori del canone, che rischia con la sua sola, incongrua presenza di far crollare tutta l’impalcatura dei mondi infiniti, come se il multiverso si reggesse su di un unico malcerto punto d’appoggio. Così il film diventa una meditazione più generale sul concetto di canone narrativo, su ciò che si ritiene sia legittimo o meno fare con le storie, e anche sull’arroccarsi nell’ossessiva difesa di presunte versioni originali. Un tema al centro di un dibattito attualissimo, se si pensa alle interminabili, pretestuose polemiche sulla scelta di una Sirenetta di colore nel nuovo live action Disney, che contravverrebbe alle intenzioni della fiaba di Andersen; e lo stesso discorso vale per Miles, ragazzino nero che diventa Spider-Man dopo il bianco Peter Parker.

L’immaginario però funziona in maniera diversa, si muove continuamente, in una ibridazione continua e anticanonica. Questo dato Spider-Man: Across The Spider-Verse ce lo ricorda non per un supino assoggettarsi al discorso sull’inclusività, che è diventato un altro ripetitivo luogo comune, ma perché è esattamente nella natura delle storie il loro continuo riadattarsi, mutare, rendersi disponibili per nuove sperimentazioni e cortocircuiti. Il film questo punto di vista fortunatamente non lo consegna a un discorso pedante o didascalico, e lo veicola sempre attraverso le immagini, nella forma abbacinante di un inarrestabile caleidoscopio visivo, col suo cerimoniale generoso e dispersivo, capace di bruciare in attimi subliminali intuizioni che passano sullo schermo più velocemente della nostra soglia percettiva, con un dinamismo che irretisce e disorienta.

Ciò che si coglie molto bene invece è la vicenda di due adolescenti alle prese col loro coming-of-age di interrogativi, prove, sentimenti e dolori umanissimi. Che costituiscono, aldilà di ogni legittima impalcatura metanarrativa, la vera sostanza di cui sono fatte le storie, e quello che da spettatori, proiettandoci su di esse, cerchiamo davvero. Anche se in questo caso, per apprezzarne la conclusione, bisognerà ahimè attendere il prossimo episodio, Spider-Man: Beyond the Spider-Verse, già annunciato per il 2024.

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