La voglia di palingenesi è sin nel titolo dell’ultimo film di Mario Martone, Capri-Revolution. Ma chi sono i rivoluzionari in questa storia? Forse i giovani cosmopoliti riuniti nella comune proto-hippie guidata dal carismatico pittore Seybu (Reinout Scholten Van Aschat), spiritualisti dediti a vegetarianesimo e nudismo, alla fusione edenica con la natura nella Capri del 1914. O forse il laico e scientista dottor Carlo (Antonio Folletto), socialista interventista (siamo alle soglie della Grande Guerra) che guarda ai rivoluzionari russi.
Tra questi due mondi opposti – come emerge dai didascalici dialoghi tra pittore e dottore, che si confrontano su natura e cultura, spiritualismo e scientismo progressista –, la vera rivoluzione finisce per compierla Lucia (Marianna Fontana), capraia analfabeta che entra in contatto con lo stile di vita trasgressivo e libertario della comune e a partire da lì intraprende un percorso di emancipazione emotiva e intellettuale.
Capri-Revolution, sceneggiato dallo stesso Martone insieme a Ippolita di Majo, è un’operazione rischiosa, perché ricca di riferimenti culturali tanto stimolanti quanto ingombranti. Il primo è il pittore Karl Diefenbach, creatore d’una comune nell’isola tra 1900 e 1913, ispirata a sua volta a Monte Verità in Svizzera, dove si riunirono persone legate da ideali utopisti, naturisti, teosofici – ospitando personalità come Jung ed Hermann Hesse. C’è poi naturalmente l’ultimo Tolstoj pacifista e animalista. E Seybu è l’anagramma del cognome di Joseph Beuys, l’artista tedesco che a Capri realizzò un’opera citata nel film, Capri-Batterie, una lampadina elettrica collegata a un limone, sorta di sintesi energetica tra natura e cultura. Da Beuys il personaggio del film ricava anche la sua idea radicalmente politica dell’arte. E ne riprende persino le parole, quando afferma che “la rivoluzione siamo noi”, titolo d’una mostra napoletana dell’artista del 1971, curata dal gallerista Lucio Amelio, carissimo a Martone.
In Capri-Revolution la scommessa sta nel prendere questa nutriente ma ponderosa impalcatura intellettualistica e sublimarla in un racconto non pedante. Di qui la centralità di Lucia, grazie alla quale gli ideali utopici diventano carne, passioni, aspirazioni concrete. Il montaggio rincorre suggestioni poetiche e figurative più che narrative. E il film segue la trasformazione della donna, che non sposa l’eden comunitario – esperienza che pure attraversa con entusiasmo – né il razionalismo rivoluzionario del dottore, ma trova un percorso autonomo, personalissimo e al femminile.
La traccia decisiva che opera sotterraneamente in Capri-Revolution è tutta in chiave femminile. È un filo che si dipana lungo la direttrice di scrittrici legate a Napoli. Parte da Fabrizia Ramondino, citata a inizio film, continua nel vestito rosso di Lucia che ne certifica la raggiunta autonomia – la stessa scelta del personaggio di Anna Bonaiuto ne L’amore molesto, film tratto da Elena Ferrante –, e si chiude con l’immagine del cardillo in gabbia, che rimanda ad Anna Maria Ortese. A recare con sé l’uccellino è l’attore Roberto De Francesco, che ripete il cameo di due precedenti film di Martone, a conferma del fatto che questo è l’episodio conclusivo d’una trilogia su storia, utopia e identità italiana che, dopo l’affresco risorgimentale di Noi credevamo e la biografia leopardiana de Il giovane favoloso, termina scommettendo sommessamente sul futuro. E sulle donne.