A leggere le dichiarazioni di Martone sul film dedicato a Giacomo Leopardi, Il giovane favoloso, i timori erano tanti. “È un artista profetico come Pasolini”: vai col Leopardi “luterano e corsaro”, poeta contro che duella con reazionari e progressisti e si immerge in una Napoli popolare, antagonista e antimoderna.
“Recanati è una gabbia: è come trovarsi davanti a una costruzione borgesiana”: ecco il genio precoce recluso dall’aguzzino padre Monaldo, in un esercizio letterario di biblioteche e labirinti. E l’ultima, “Leopardi è più che attuale, è davanti a noi”: la paura dell’opera a tesi, dove ogni personaggio o categoria sociale compare in funzione di una lettura dell’Italia contemporanea.
Fortunatamente di tutto questo nel film non c’è quasi traccia. Il giovane favoloso è una biografia intellettuale e sentimentale di Leopardi quasi sorprendente: un’opera che procede senza un centro narrativo, con una struttura da zibaldone, dove gli unici punti fermi sono lo svolgimento cronologico delle vicende e la forza delle idee e delle parole del poeta.
Martone è rigoroso solo nel rispetto filologico, con i dialoghi esemplati senza pedanterie su poesie, epistolario e pensieri leopardiani. È bravissimo a restituirli il protagonista Elio Germano – un’interpretazione di grande mimetismo fisico, per nulla grottesca –, che fa dimenticare del tutto l’origine letteraria: non recita versi ma parole quotidiane.
Su tutto il resto domina una sbrigliata libertà narrativa. Ogni episodio ha un suo tono. Gli anni di Recanati sono un diario intimo giovanile, segnato dal rapporto con il padre Monaldo, dove la cultura è l’unico tramite attraverso cui far passare sentimenti che faticano a manifestarsi – magistrale Massimo Popolizio nel tratteggiarlo chiuso e conservatore, ma al fondo premuroso e affettuoso.
Il periodo dell’affermazione letteraria a Firenze è quello dell’apprendistato sentimentale: un triangolo in cui, tra l’amico fraterno Antonio Ranieri – un opaco Michele Riondino – e l’amore non corrisposto per Fanny Targioni Tozzetti, a uscirne sconfitto è Leopardi.
Infine la bohème napoletana, vitalistica nonostante il progredire della malattia: Leopardi preferisce la compagnia del popolo, sfiora la sessualità e scopre la sensualità dei sapori. Ma a evitare pasolinismi, Leopardi esplicita il suo bisogno di fuggire dai napoletani che giudica “lazzaroni e pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e bifolchi”.
Il giovane favoloso scompone e ricompone la vita di Leopardi senza ambizioni illustrative. L’unica tesi è che uomo e poeta siano una cosa sola: i sentimenti si annodano al pensiero e Leopardi parla con versi figli di una scrittura fortemente autobiografica.
L’universo visivo del film è a tratti allucinato, per evitare didascalismi: Silvia morta che si muove nella bara, la “natura matrigna” delle Operette morali raffigurata come gigantessa di sabbia sul punto di sfaldarsi. E il vulcano, di fronte al quale Leopardi compone la sintesi estrema del suo pensiero, La ginestra. Lo “sterminator Vesevo” che inghiotte uomini e sogni di progresso: immagine di estinzione di vita e pensiero che, per l’enormità della forza tellurica, restituisce la “disperata vitalità” leopardiana, il bisogno di vita che si è fatto parola. Su questa parola il film si chiude. Senza messaggi e lezioni, solo visioni.