“Chi vuol esser metal, sia, di doman non c’è certezza”, e dopo questo incipit abbiamo visto comparire lo spettro di Lorenzo De’ Medici abbastanza contrariato dalla nostra tras(h)posizione della sua Canzona Di Bacco. Tuttavia, anziché lanciarci un anatema ha sputato sul nostro specchio e ha gridato: “Ah, anche poeta!”, preferendo un atteggiamento più distaccato à la fantozziana signorina Silvani.
E di distacco, quando ascoltiamo 72 Seasons dei Metallica, ne abbiamo tanto bisogno. Cosa bolle nel piatto di James Hetfield e della sua squadra? C’è tanto metal, ma proprio tanto, e su certi aspetti troviamo una band certamente fossilizzata nella zona di comfort. Eppure limitarci a questo sarebbe crudele.
Dobbiamo smettere, infatti, di pretendere sempre che i nostri eroi ritornino ai fasti del passato: chi pensa che i Metallica siano morti con Cliff Burton probabilmente ha ragione, chi pensa che siano morti con l’uscita di scena di Jason Newsted probabilmente ha anch’egli ragione. Chi pensa che i Metallica non siano più in grado di essere i Metallica, però, sbaglia. 72 Seasons, come il titolo suggerisce, è un concept in cui gli Horsemen esplorano i primi 18 anni di un individuo, forse un Pink di The Wall più inca**ato, e gli fanno distruggere la culla e incendiare tutto. Un protagonista che si muove tra tentativi di suicidio, rabbia e nemici immaginari.
Va detto che la ca**imma di zio Hetfield – che vanta e conta 60 primavere, mica bruscolini – è cambiata, se non smussata. Il pedale a tavoletta si percepisce dalla title-track che apre il disco, una cavalcata violenta in cui le chitarre in frenetico muting somigliano alle pale di un elicottero (o a un mitragliatore, fate voi), una giusta opening che ci spalanca le porte per Shadows Follow, massiccia con sfumature hard rock quanto ridicola per quei coretti, ma che si fa perdonare in quel turbine che arriva intorno al finale.
Di Screaming Suicide abbiamo già parlato: violenta e profonda, quasi cattiva da far digrignare i denti, che ci carica prima di Sleepwalk My Life Away. Qui siamo vicini agli Alice In Chains più metallari – Dam That River, tipo – ma anche agli stessi Metallica più tamarri di cui ritroviamo l’essenza in You Must Burn!, probabilmente il pezzo più heavy del disco che ricorda per forza di cose la violenza di Sad But True. Sì, decisamente You Must Burn! ha tutte le carte per essere il pezzo migliore di 72 Seasons.
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C’è poi una delle cose più divisive che i Metallica abbiano partorito: quella buffonata di Lux Æterna in cui i nostri hanno giocato a fare il verso ai Judas Priest, simulando un ritorno alle origini nell’assolo di Kirk Hammett così simile a quello di Master Of Puppets. Lanciata come primo singolo estratto dell’album, non è stata certamente un buon biglietto da visita. Crown Of Barbed Wire e Chasing Lights sono i classici brani da skippare fino a If Darkness Had A Son, una cavalcata in cui ritroviamo i nostri e possiamo headbangare male almeno fino alla strofa. Il resto è degno di riascolto per poter essere assimilato.
Too Far Gone? è decisamente punkettara à la Misfits e regge bene l’impianto narrativo e le dinamiche del disco: è una delle canzoni da salvare e che ci accompagna al gran finale con Room Of Mirrors – skippabile – e Inamorata. Ora, Inamorata cos’è? È la suite che non deve mancare, la canzone “strana” che troviamo in ogni concept che nel nostro caso ci impegna per 11 minuti. Non fosse per quel bridge che parte dal min 5:15 e che ci ricorda Orion (hey, mica niente), sarebbe tutta uguale.
72 Seasons dei Metallica è il classico disco che spacca per certi aspetti, che non ti fa esplodere per altri e di cui skipperesti molte tracce. Manca – grazie a Dio o Pazuzu, fate voi – la ballatona con chitarre in clean di cui abbiamo le gonadi piene dai tempi di Nothing Else Matters, ma non manca la potenza. Ne abbiamo dette tante contro, ma sul pro dobbiamo essere d’accordo: 72 Seasons dei Metallica non entrerà nella storia, ma nemmeno nella spazzatura insieme a Load e Reload, tanto meno St. Anger. O no?