Difficile aggiungere riflessioni nuove a proposito di John Wick 4, un film che con straordinaria coerenza, caparbietà o temerarietà ripete a tal punto sé stesso che da critico sarebbe possibile copiare e incollare la recensione relativa al terzo episodio Parabellum, semplicemente aggiornando dove necessario i dettagli secondari. Che non riguarderebbero la trama, che riproduce lo stesso schema: il reietto John Wick (Keanu Reeves), il sicario più ricercato e con una taglia sulla sua testa che si fa di massacro in massacro sempre più esorbitante, continua la sua battaglia per la sopravvivenza e la libertà.
Stavolta la misteriosa organizzazione che muove i fili di tutto, la Tavola, ha destinato pieni poteri al Marchese de Gramont (Bill Skarsgård), vizioso, elegantissimo, ovviamente sadico e vigliacco, che fa di tutto pur di eliminare John Wick. Punisce il direttore del Continental Winston (Ian McShane) distruggendogli l’hotel e uccidendogli il concierge e amico Charon (Lance Reddick, recentemente scomparso), e assolda il killer orientale Caine (Donnie Yen), cieco come Matt Murdock, con un talento da guerriero impareggiabile, un codice da samurai e un cuore d’oro, dato che si sottopone alla legge della Tavola solo per aver salva la vita dell’adorata figlia.
Sarà un’avventura piena di peripezie (e stragi), con un saltabeccare tra location sparse per il mondo, secondo quell’inevitabile gusto internazionale alla James Bond che è regola inaggirabile di questo genere action, muovendosi tra Marocco, New York, Osaka e terminando, viste le sedicenti ascendenze nobiliari del cattivo, in un lungo finale parigino, con tanto di Louvre e Sacro Cuore (la produzione si è fatta decisamente grande).
Si è fatta grande perché al franchise John Wick ha arriso un successo inatteso e senza precedenti. Il primo episodio, come i seguenti diretto dall’ex stuntman Chad Stahelski, scritto a partire da un suo personaggio da Derek Kolstad e con protagonista un attore di prima fascia però un po’ in disarmo come Keanu Reeves, sembrava dovesse essere poco più di una parentesi. E invece un film dopo l’altro gli incassi sono, alla lettera, raddoppiati: agli 86 milioni del capostipite hanno fatto seguito i 171 del secondo e i 327 di Parabellum. A ogni puntata sono aumentati anche budget, ambizioni, persino la durata, dato che John Wick 4 ha l’ardire, vista la scheletricità della trama (vale sempre quello che scrisse il critico di Repubblica Roberto Nepoti a proposito del secondo episodio: “la sceneggiatura di John Wick 2 si potrebbe riassumere in un tweet”), di sfiorare le tre ore di durata.
Un kolossal – che secondo gli analisti dovrebbe incassare settanta milioni solo nel primo weekend –, un kolossal basato su di un’idea di cinema al grado zero, un cinema movimento in cui le immagini, sempre più lambiccate e stupefacenti, restituiscono un’azione che insegue senza posa sé stessa, come in un loop in cui la narrazione si dissolve, liquefatta dentro un’esperienza visiva e sensoriale che sconfinerebbe, come ha sostenuto qualcuno, quasi nelle installazioni da videoarte.
John Wick 4, ma vale per tutta la serie, non fa altro che prendere una minuscola cellula narrativa, incardinata sul tema della vendetta, a partire dalla quale mette in moto un meccanismo di violenza che si ripete sempre uguale, seguendo però cerchi concentrici che come in una spirale tendono ad allargarsi, secondo un principio di ripetizione e insieme accumulazione di continue variazioni sul tema. Qui ogni sequenza rilancia la suggestione visiva, con cambi di location sconograficamente e coreograficamente impeccabili – gli elementi decisamente più importanti del film – che mirano a un continuo stupore dello spettatore.
Come nei vecchi film di arti marziali degli anni Settanta, l’eroe è posto di fronte ad avversari sempre più minacciosi (lottatori di sumo, bellimbusti giganteschi in impeccabili completi a tre pezzi, persino un tizio monumentale con una dentatura metallica veramente da personaggio di James Bond), incastrato dentro prove letali, attraverso le quali deve passare superando i livelli di un interminabile videogioco sparatutto, fino all’inevitabile scontro finale con il marchese.
Nel frattempo però, mentre il protagonista è sempre più ammaccato e però sostanzialmente infrangibile – la verosimiglianza non è esattamente la caratteristica principale di John Wick 4 – c’è spazio per scampoli di amicizia e cavalleria tra vecchi e nuovi personaggi: il re della Bowery Laurence Fishburne, l’antico sodale Shimazu (Hiroyuki Sanada), direttore del Continental di Osaka che lo protegge e ne paga il fio, il bounty killer Tracker (Shamier Anderson) e lo stesso Caine, che ha ben presente il senso dell’onore. Ma sono appena sprazzi disposti lungo una tela la cui maggiore qualità sta proprio nel suo ostinato mostrarsi come pura superficie, nel ritorno ossessivo di un’unica figura coreografica sfarzosa, efferata ed astratta, dentro la quale lo spettatore finisce per scivolare come ipnotizzato, dimenticando la totale insensatezza del dispositivo ludico e rischiando, ahinoi, persino di divertirsi. Il cinema però è da tutt’altra parte.