Nel 1953 il filosofo lettone Isaiah Berlin pubblicò il saggio The Hedgehog and the Fox, Il riccio e la volpe, il cui scopo era rappresentare a partire dal diverso comprtamento dei due animali indicati nel titolo, due differenti approcci alla vita. Il filosofo parte da un passaggio del poeta greco Artiloco, “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande” e da lì sviluppa il suo scritto, dove la volpe viene descritta come astuta, del resto questo è lo stereotipo che da sempre la accompagna, agile nel capire le situazioni e comportarsi di conseguenza, versatili e quindi capaci di affrontare ogni tipo di contesto diverso, mentre il riccio è animale strutturato, con regole rigide e convinzioni solide. La volpe ha quindi un grande bagaglio di esperienze personali o geneticamente incamerate, e attraverso queste riesce a adattarsi a tutto quel che le si pone davanti, astuta nell’integrare prospettive differenti, intuizioni e suggestoni utili al caso. Il riccio affronta il mondo e la vita a partire da un unico punto di vista, strutturato, inamovibile, quindi sicuro. La volpe affronta ogni passaggio con cautela, guardinga e sorniona, il riccio è centrato, mai dubbioso. L’una è complessa, l’altro monolitico. A guardare la faccenda da una prospettiva diversa, l’una è sempre pronta a mettere in discussione una propria certezza, tenendo conto di come gli eventi siano spesso in balia di agenti esterni, imprevedibili, ivi compresa la fortuna, sempre e comunque frutto di una interazione di molteplici aspetti scesi in campo, mentre l’altro rimane fermo sulle sue convinzioni, quasi impossibilitato a comprendere la visione di chi la pensa diversamente da lui. Per dirla con il Franco Battiato di Inneres Auge, la volpe è la linea orizzontale, il riccio quella verticale, anche se in questo caso le parti si invertono, è il riccio a spingersi verso la materia, la volpe a guardare verso lo spirito, l’uno statico, fermo, anche sotto un punto di vista positivo, l’altra dinamica, in continuo movimento, evoluzione.
In campo lavorativo, quindi, avere in una propria squadra elementi che incarnino questi due approcci, quello sicuro e inamovibile del riccio come quello complesso e duttile della volpe, dovrebbe portare a una visione totale, figuriamoci se a incarnare entrambe le anime è la medesima persona, certo vagamente a rischio sociopatia.
Chi indubbiamente è stato (è) più dalle parti della volpe che del riccio è Linton Kwesi Johnson, settantenne artista giamaicano, poeta e cantautore, sin da giovanissimo trasferitosi a Londra e divenuto padre putativo e simbolo del cosiddetto Dub Poetry, quel sottogenere del reggae che vede un artista recitare versi poetici sopra una base dub portata avanti da un dj. Un genere, questo, non troppo dissimile da quello praticato da un altro artista di origine giamaicana, ma di stanza negli USA, Gil Scott-Heron, nato tre anni prima di Linton Kwesi Johnson e attivo per anni in un non luogo a metà strada tra spoken word e jazz, le sue collaborazioni con Brian Jackson, Pieces of a Man su tutte, secondo album uscito nel 1971 dopo l’esordio fulminante di Small Talk at 125the and Lennox, quella con The Revolution Will Be Not Televised, poi ripresa anche nel secondo lavoro di studio, è un gioiello che andrebbe ancora oggi studiato nelle scuole di musica, la dura critica alla società contemporanea portata avanti con un taglio decisamente originale, al pari di quanto Linton Kwesi Johnson farà dall’altra parte dell’oceano, entrambi attivisti legati ai diritti dei neri nei rispettivi contesti, a fianco dei Last Poets indicati a ragione come i precursori di quello che sarà di lì a breve, sul volgere degli anni Settanta, il rap. Linton Kwesi Johnson che nel 1984 ha pubblicato un album dal titolo Making Histyory, come buona parte dei suoi lavori scritto in lingua Jamaican creole, cioè patwa, nel quale alterna stilettate poetiche contro il governo Thatcher, lui che è cresciuto adolescente nella nera Birxton londinese (sì, quella di Guns of Brixton dei The Clash, fortemente debitori di ispirazione proprio nei confronti del nostro), a stilettate altrettanto poetiche ai grandi della Terra, impegnati in una logorante guerra fredda. Proprio un brano dedicato al pericolo di una guerra nucleare è quello cui è destinato il compito di aprire l’album, Di Eagle an’ di Bear, due animali assai differenti tra loro come mood, l’aquila e l’orso, lì a incarnare le due superpotenze che si minacciavano a distanza, di lì a breve sedute a un tavolo a partire da una partita di scacchi. Sempre coppie di animali, quindi, seppur animali cui in questo caso non è richiesto di indicare altro che il loro essere assurti a simbolo dei rispettivi paesi, gli Stati Uniti d’America con l’aquila e l’URSS, ancora c’era l’Unione sovietica, con l’orso. Non indicato né evocato il leone di Giuda, simbolo del rastafarianesimo, religione che prende il nome da Ras Tafari titolo col quale si faceva chiamare l’imperatore etipoe Hailé Selassié. Il leone campeggia nella bandiera etiope, non in quella Giamaicana, ma spesso i giamicani, specie nello sport, vengono indicati come leoni. Quello che però principalmente l’isola caraibica ha regalato al mondo è la musica, inutile star qui a fare l’elenco dei tantissimi artisti di pregio nati in quest’isola, da Bob Marley a Peter Tosh, passando appunto per Linton Kwesi Johnson. Il rocksteady, lo ska, il reggae e il dub sono tutte evoluzioni musicali dei ritmi africani arrivati attraverso gli schiavi in Giamaica, dove il rastafarianesimo atteché soprattutto presso le comunità locali anticoloniali.
Senza l’arte di personaggi quali Gil Scott Heron e Linton Kwesi Johnson, il primo scomparso nel 2011 dopo aver bruciato parte della sua esistenza da dropout dietro le droghe, il secondo giustamente riconosciuto come uno dei massimi poeti viventi, non esisterebbero oggi nomi quali quelli di Kae Tempest, per dire, o Saul Williams, né fenomeni con tempo divenuti non dico alla moda, ma sicuramente popolari quali gli Poetry Slam. Del resto, molti studiosi sostengono, a ragione, che il rap, canonizzato nel Bronx, a New York ,nella metà degli anni Settanta, i già citati Last Poets e Gil Scott Heron a aprire le danze, con degli MCs che si sfidano a suon di rime su basi improvvisate da dj che suonano vinili su due piatti, sia figlio diretto del toasting giamaicano, sottogenere del reggae che vuole l’artista recitare versi su una base, prevalentemente percussiva, quindi composta da riddim o beat che dir si voglia, nato nelle dancehall di Kingston già negli anni Sessanta. Toasting, Rap, Dub Poetry, Poetry Slam, tutto torna come in un circuito virtuso, parole che inseguono parole su ritmi che inseguono ritmi, voci che partono dal basso, tra poesia e protesta, impegno civile e voglia di primeggiare, intrattenimento e necessità di lasciare un segno. Volpi che si adattano a situazioni di emarginazione e disagio, agili a schivare ostacoli e abili a leggere il territorio nel quale si trovano a muoversi, ricci che inseguono ostinati le proprie visioni del mondo, incuranti dei segnali avversi che il mondo lancia loro addosso. Isaiah Berlin, nato a Riga, in Lettonia, ma sin da piccolo trasferitosi con la famiglia a Londra, proprio per fuggire dall’orso bolscevico, lui nell’assai più benestante quartiere di Hampstead, la sapeva evidentemente lunga, chissà come avrebbe potuto leggere seguendo le indicazioni del suo Due concetti di libertà le parabole per un certo periodo parallele, poi decisamente divergenti, di Gil Scott Heron e di Linton Kwesi Johnson, l’autodeterminazione della libertà positiva mai come nel loro caso ha dovuto fare i conti con una certa carenza di libertà negativa, il talento a fare tutta la differenza.