Il Primo Giorno della Mia Vita, Paolo Genovese e la ricerca della felicità

A partire da un suo romanzo, il regista costruisce un racconto dalle venature fantastiche, che guarda addirittura a “La Vita è Meravigliosa” di Frank Capra. Un film imperfetto e generoso. Fragile come il mondo incupito che racconta

Il Primo Giorno della Mia Vita

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Dopo Supereroi, Paolo Genovese traspone al cinema anche il suo romanzo precedente, Il Primo Giorno della Mia Vita, con la sceneggiatura composta insieme ai fidi Paolo Costella, Rolando Ravello e Isabella Aguilar, che hanno alternativamente collaborato alla scrittura di tutti i film del secondo periodo della carriera di Genovese. Il cui punto di svolta, dopo una serie di commedie più leggere (quelle in coabitazione con Luca Miniero e i primi titoli solo suoi come Immaturi e Tutta Colpa di Freud) è naturalmente Perfetti Sconosciuti, la commedia “seria” italiana più riuscita di questi ultimi anni.

Da quel film in poi Genovese ha cominciato a indagare la parte più segreta e dolorosa delle vite dei suoi personaggi con uno sguardo che si è fatto via via più adulto e ambizioso. Ed è un’ambizione la sua cui, pure nell’imperfezione dei risultati, sia in The Place che nel successivo Supereroi, non si può guardare senza una nota di apprezzamento, per l’ostinata volontà di costruire una narrazione che, svincolandosi dai confini spesso asfittici della commedia italiana, cerca punti di vista meno conciliati e non obbligatoriamente ilari sulla realtà.

È diventata anche poco italiana la prospettiva di Genovese, sempre meno legata a tic, stereotipi e ritratti tipici da Belpaese. Caratteristica questa che accomuna The Place, girato in un locale anonimo che potrebbe essere dovunque e in nessun luogo; e lo sfondo milanese di Supereroi, scelto, verrebbe da dire, soprattutto perché la città meneghina è quanto di più simile a uno scenario globale possa offrire il contesto italiano. Vale lo stesso discorso per Il Primo Giorno della Mia Vita, la cui vicenda si svolge in una Roma sì riconoscibile (soprattutto il quartiere Esquilino tra Stazione Termini e piazza Vittorio), ma della quale ci si sforza costantemente di smorzare le tracce di grande bellezza, a partire da una prima sequenza spazzata da una pioggia battente, il cui suono su schermo nero precede la prima immagine del film, a spegnere fin sul nascere qualunque tentazione di affidarsi allo splendore dell’immaginario capitolino.

D’altronde la vicenda de Il Primo Giorno della Mia Vita è tutt’altro che rinfrancante. Quattro individui si sono suicidati in una notte qualunque: Napoleone (Valerio Mastandrea), coach motivazione di successo eppure roso dal mal di vivere; Arianna (Margherita Buy), poliziotta che non riesce a riprendersi dalla morte della figlia; Emilia (Sara Serraiocco), campionessa di ginnastica artistica che un incidente ha ridotto sulla sedia a rotelle; Daniele (Gabriele Cristini), bambino diventato famoso youtuber, spinto più dal padre che per vocazione. A questi infelici un misterioso individuo (Toni Servillo) – un angelo custode? – offre l’opportunità di guardare dall’esterno per una settimana il mondo, come fossero fantasmi che osservano lo scorrere della vita dopo la loro dipartita. Per capire cosa hanno perduto e, si spera, cambiare idea.

L’impostazione de Il Primo Giorno della Mia Vita è la stessa di The Place, il racconto in chiave soprannaturale che si fa metafora e riflessione sul senso dell’esistenza, ruotando intorno all’eterno tema della ricerca della felicità. Ovviamente c’è un riferimento ancora più ambizioso, quasi proibitivo: l’irripetibile La Vita è Meravigliosa di Frank Capra, in cui l’angelo di seconda classe Clarence fa capire al disperato George Bailey (James Stewart), che ha deciso di farla finita, che l’esistenza è invece un’avventura straordinaria.

Nonostante l’improponibilità del paragone, è proprio dal parallelo con il commovente capolavoro di Capra che originano le riflessioni credo più interessanti a proposito del film di Genovese. Il quale, preso di per sé è purtroppo, nonostante le lodevoli intenzioni, zoppicante e non riuscito. Per le note insistentemente metafisiche e simboliche che tendono all’apologo; per la ricerca di epifanie visive (assistite dalla colonna sonora) che dovrebbero fornire dei picchi emotivamente coinvolgenti a una storia che invece prosegue algida e piuttosto legnosa: per l’indeterminatezza dei personaggi, che assomigliano più a casi esemplari buoni per esporre la tesi di cui si vuole dibattere; e per la debolezza connotativa del fondale della storia, una Roma dilavata al punto da diventare luogo indefinito e privo di significato.

Uno spazio nel quale i protagonisti si muovono come gli ectoplasmi che dovrebbero essere. Lasciando però nello spettatore la curiosa sensazione, sebbene il quintetto reciti quasi costantemente insieme, di un gruppo di persone senza alcuna connessione l’una con l’altra, come fossero solitudini casualmente accostate, senza che affiori mai un senso di intimità, partecipazione o curiosità reciproca. Pur dialogando tra loro, paiono sempre soltanto in compagnia della propria solipsistica solitudine – e non aiutano dialoghi goffamente letterari, come quando la Buy, ricordando la morte della figlia, dice: “Olivia aveva come uno stupore negli occhi, mi ha guardata e poi si è accasciata”.

Invece però di chiederci se sia bello o brutto, cerchiamo di guardare a Il Primo Giorno della Mia Vita come un sintomo di qualcosa che ci appartiene. E proprio il confronto con La Vita è Meravigliosa torna utile. Il cui messaggio suona assolutamente autentico non solo per lo splendore della narrazione, bensì perché dietro quella storia c’è un mondo, un’ideologia, una speranza autentica a sorreggerlo. Capra lo realizza nel 1946, un anno dopo la fine di quella guerra mondiale cui lui stesso e il suo protagonista James Stewart avevano partecipato. La Vita è Meravigliosa restituisce la tonificante sensazione di una realtà che rinasce, gravida di opportunità e di prospettive concrete di futuro. Attenzione, il film non è né semplicistico né accomodante: a chi volesse scambiarlo per un feel good movie basta ricordare il ruolo di mister Potter, il capitalista rapace che vorrebbe trasformare la cittadina in cui vive George in un incubo di depravazione consumista, basato solo su sesso e denaro.

Ed è contro questa visione triste e asfittica della vita che ha lottato tutta la vita George Bailey, un uomo retto che ha abbandonato i suoi sogni individualistici per spirito di servizio e per un altruismo ben fondato su di una educazione profondamente morale. George vuole uccidersi non perché è infelice come individuo, ma perché il fallimento della piccola cooperativa di risparmi fondata dal padre coincide col fallimento del suo obiettivo di fare qualcosa per la città, arginando la grettezza dei mister Potter di questo mondo. Sul film di Capra, nutrito dal suo coinvolgente ottimismo per nulla manicheo, aleggia sempre l’impronta fortissima di una solida comunità: la quale infatti, quando George decide di abbandonare l’idea del suicidio dopo aver visto cosa ne sarebbe stato della realtà senza di lui, gli si stringe attorno in una commovente esplosione di altruismo disinteressato.

La prospettiva de Il Primo Giorno della Mia Vita è molto diversa. Genovese è onesto e non semplifica le cose: ci dice che la vita vale la pena di essere vissuta, ma non per questo la trasforma in uno scenario fiabesco al sapore di zucchero filato. C’è poco da stare allegri, e la scena in cui Servillo mostra quante sono le persone effettivamente felici in una metropoli come Roma non lascia dubbi al riguardo. Quello che colpisce nel film è però il fatto che la felicità resti una questione strettamente individuale e individualistica. Non c’è più nessuna comunità reale o ideale di riferimento, al massimo c’è la famiglia, e nemmeno quella (il padre gretto e arraffone di Daniele).

Il film di Genovese, insomma, è cupo e poco tonificante perché è cupo il contesto di un mondo in cui l’individuo si muove solitario, in una prospettiva in cui al massimo ci è offerto di seguire e conseguire una malcerta felicità sempre sul punto di sgretolarsi. Ed è più l’utopia della felicità che il suo raggiungimento la motivazione che dovrebbe muovere i personaggi.

Non c’è nemmeno l’ombra di prospettive collettive, di un’idea di futuro, di una esistenza degna di essere vissuta non in vista della felicità possibile ma per la sua utilità e il significato sovraindividuali. Così il ritorno alla vita si riduce a un atto di buona volontà, ma manca un mondo intorno che entri in risonanza con il ritrovato ottimismo personale. L’ottimismo della volontà deve bastare a sé stesso, in una continua pratica di autoconvincimento da manuale di autoaiuto, di cui l’angelo Servillo offre una personificazione che però resta balbettante.

Questa però non è semplicemente una caratteristica del film, ma è la natura del contesto, o almeno la percezione che abbiamo del contesto in cui si muovono le nostre vite oggi, gravate da una percezione disillusa e distopica – non a caso uno dei generi più popolari degli ultimi anni –, che si riflette nello scenario demoralizzante della Roma senza Roma de Il Primo Giorno della Mia Vita.

Letta in questa prospettiva, l’incapacità dei personaggi di parlare autenticamente l’uno con l’altro, il loro restare ostinatamente chiusi dentro la propria monade un po’ egoista non è un difetto del film, è semmai il riflesso del mondo in cui viviamo o crediamo di vivere, in cui la massima promessa è il conseguimento di un benessere personale. Non è un caso allora che il personaggio più infelice e tormentato sia Napoleone, che ha ottenuto tutto il successo materiale che la vita poteva promettergli. Ma resta tragicamente solo e disperato. E forse non ha tutti i torti, se intorno a lui sembrano non esserci speranze residue. Non sarà forse un “bel” film Il Primo Giorno della Mia Vita. Ma un racconto sintomatico di una realtà raccontata senza eccessive illusioni, quello sì. E non è poco.

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