A un certo punto, in Supereroi, vediamo il giovane professore di fisica Marco mentre da solo, a casa, sta mangiando del cibo cinese preso al takeaway, e nel frattempo guarda in tv, ripetendola, quella buffa scena di Love Actually in cui il primo ministro inglese Hugh Grant è beccato dalla sua assistente mentre balla al ritmo di Jump delle Pointer Sisters.
È una scena che non ha nulla di specificatamente italiano, che cita un celebre film d’intrattenimento che appartiene all’immaginario globale e descrive un’abitudine, quella di consumare cibo da asporto nelle tipiche confezioni di cartone, che da spettatori avremo visto almeno un milione di volte tale e quale in qualunque film americano. E in effetti è esattamente così questo Supereroi di Paolo Genovese, di cui era già uscita la versione romanzo da Einaudi nel 2020 e che ora è diventata un film, sceneggiato dal regista insieme a Rolando Ravello e Paolo Costella.
Un film che, nonostante l’ambientazione milanese – la quale mantiene un che di oleografico e generico, che non va oltre la piazza del Duomo, i navigli e i bellissimi, caratteristici tram – non ha nulla che riconduca le vicissitudini decennali dei due innamorati Anna e Marco (Jasmine Trinca e Alessandro Borghi; il riferimento a Lucio Dalla non è casuale, ci sarà pure la cantata collettiva di Disperato Erotico Stomp) a un contesto e una cornice riconoscibilmente nazionali.
Non a caso perciò il momento più esemplare e didattico del film, in cui Marco spiega agli studenti il comportamento delle particelle atomiche che più si respingono più finiscono per attrarsi, non si svolge in Italia, ma in Danimarca, e il professore si rivolge ai ragazzi parlando in inglese. Paolo Genovese ha realizzato un film che racconta una storia ad alto tasso di rispecchiamento globale, che ripercorre inquietudini, stili di vita, problematiche che non hanno più nulla di marcatamente italiano e appartengono almeno alla società occidentale tutta, e ormai nemmeno più soltanto a quella. Infatti il suo è riuscito ad essere un perfetto cinema da esportazione, come ha dimostrato il successo del cult Perfetti Sconosciuti, che s’è trasformato in un format con riadattamenti in mezzo mondo.
Anche la confezione di Supereroi appartiene a un immaginario e modelli non localistici. La vicenda sentimentale di Anna e Marco – lei fumettista sfuggente e passionale che s’inventa una serie di successo molto autobiografica che si chiama Supereroi, lui fisico iperrazionale che sa calcolare a quale velocità devi camminare sotto la pioggia per non inzupparti – Genovese la racconta in una forma modaiola e consolidata fatta di continui flashback e flashforward, di piccole cellule narrative in cui s’accumulano, in una forma ingarbugliata e soprapposta, tutte le pagine facili, futili, talvolta davvero dolorose di una coppia che affronta la sfida impossibile dello stare insieme nonostante tutto, in un tempo e in una società che all’amore eterno non crede più.
Questa è la forza del film e la forza del cinema di Paolo Genovese il quale sceglie spesso storie tatuate sull’esperienza e gli interrogativi quotidiani del pubblico, che finisce per identificarsi e appassionarsi ritrovando sullo schermo ansie e domande del suo e del nostro tempo. Dalla “scatola nera” delle vite nascoste di Perfetti Sconosciuti alle angosce normalissime d’una qualunque coppia in una qualunque porzione di mondo – che nel caso di Supereroi è Milano perché è lo scenario italiano più internazionale che abbiamo.
Genovese tocca una tastiera emotivamente ampia, passando dalla commedia romantica all’autentico melodramma, sempre però con quell’attitudine smorzata del suo cinema, che non giunge mai all’esagitazione verace di un regista come Gabriele Muccino – con cui condivide certi temi. E la struttura ad andirivieni temporali invece di far alzare la temperatura – che è la ricetta per esempio dei primi film di Iñárritu – aiuta a sfumare i picchi emotivi, ad attutire le asperità, come se ogni accadimento – innamoramento, viaggio, tradimento, malattia, nascita, morte – fosse una tessera di un disegno più vasto, all’interno del quale anche il dolore più bruciante è riassorbito e acquista un significato che lo rende accettabile tanto per i protagonisti che per lo spettatore. Che invece di disperarsi resta avvolto dalla malinconia, da una gratificante sensazione di speranza, come se alla fine, nonostante tutto, ogni peripezia avesse una sua ragion d’essere.
Paolo Genovese si conferma un ottimo direttore d’attori: in un bel cast che comprende anche Vinicio Marchioni, Greta Scarano ed Elena Sofia Ricci, i due protagonisti – Trinca, e soprattutto Borghi in un ruolo adulto per lui finora inedito – dànno corpo credibilmente alla vicenda di Anna e Marco. Che però da spettatori ci appassiona fino a un certo punto. Sarà per l’eccesso di compostezza borghese, sarà per quei lavori gratificanti e creativi e quelle abitazioni calde e confortevoli, il film di Genovese stavolta sembra appartenerci e raccontarci solo fino a un certo punto, e solo nella nostra scorza esterna.
“Perde chi lascia o chi è lasciato? Perdono tutti e due”, recita una vignetta dei Supereroi disegnati da Anna. Il che d’accordo, sarà anche vero. E però nel film tutto è ancora e sempre riportato al privato e ai sentimenti, col tempo di un decennio scandito solo dai sussulti di coppia e mai dalle cose che accadono nella realtà, come se la vita si svolgesse in una dimensione sospesa che non conosce niente che vada oltre la soglia particolaristica della propria casa e del proprio cuore. Ma più che mai quest’ultimo paio d’anni di emergenza sanitaria hanno insegnato a tutti quanto il personale sia annodato al pubblico e al politico, e che il ripiegamento in una visione totalmente privatistica non solo è impossibile, ma è semplicemente inverosimile. Per questo Supereroi, che possiede tutta la professionalità di Paolo Genovese – raro caso di autore di un cinema “medio” (parola che va intesa nella sua accezione migliore) che cerca sempre un dialogo adulto col pubblico – finisce per assumere i toni di un film consolatorio, che non ha il coraggio di scendere davvero sul terreno impervio delle nostre paure più autentiche.