Con una facile battuta si potrebbe dire che con Il Ritorno di Casanova Gabriele Salvatores ha fatto un film felliniano che tiene insieme 8½ e Il Casanova, come due ingredienti impiegati nelle medesime quantità. In realtà poi il maestro di Rimini resta più una suggestione che una linea autenticamente perseguita. Perché quel che manca di Fellini è la messa in discussione della forma cinematografica, che nell’autoriflessione del cinema sul cinema di 8½ conduce allo sfrangiamento della narrazione, traducendosi l’impotenza dell’autore nell’impotenza del racconto, che s’incaglia a ogni passo e digerisce accumulandoli materiali eterogenei, autobiografici, fantastici, onirici. Mentre Il Casanova è una specie di trionfo della morte, lugubre e disfatto anche sotto il piano visivo, “un film astratto e informale sulla non vita”, scrisse lo stesso Fellini, e un’altra variazione sul tema dell’impotenza mascherata da eccesso di virilità.
Nessuna vertigine del genere è ne Il Ritorno di Casanova. E non tante perché nel film scritto dal regista insieme a Umberto Contarello e Sara Mosetti la metà che riguarda Casanova, cioè il film nel film diretto dal “maestro” Leo Bernardi (Toni Servillo) e interpretato da Fabrizio Bentivoglio, è tratta dal romanzo breve omonimo di Arthur Schnitzler, guardando dal punto di vista della confezione più al Barry Lyndon kubrickiano che alle tenebre felliniane (il contrappunto ironico della voce del narratore, la fotografia che gioca sulle sfumature dei lumi di candela).
Ma soprattutto perché Salvatores salva sempre la stabilità della forma, costruendo una scolastica corrispondenza di temi nel montaggio alternato tra le due vicende, che riguardano entrambe degli uomini giunti sul limitare della vecchiaia, con le conseguenti insicurezze, e il terrore nel constatare l’affievolirsi di passioni e ardori, nel proprio fisico e nello sguardo degli altri, soprattutto le altre. Forse anche per questo, per evitare che lo spettatore si renda fin troppo conto della specularità didascalica tra i due capitoli, il regista sceglie per il film nel film di Leo Bernardi il bianco e nero (però insapore, sa troppo di un colore di partenza ridotto ai soli grigi), mentre destina il colore al Casanova.
Leo Bernardi è il regista celebrato che non ha più voglia, o non riesce a montare il suo ultimo film, Il Ritorno di Casanova, che pure è in predicato di andare alla Mostra di Venezia. Però lui più che al lavoro pensa al tempo che passa, e alla giovane donna che ha incontrato per caso durante la lavorazione della pellicola, Silvia (Sara Serraiocco). La quale proviene da un mondo completamente diverso – gestisce una fattoria nel Veneto – e, appassionata e pragmatica, non sopporta le ubbie travestite da mal di vivere dell’artista che, stringi stringi, desidererebbe agguantare l’ultimo treno per la felicità ma ha paura di prenderlo.
Casanova invece, che ha superato la boa dei cinquanta e osserva allo specchio il suo disfacimento, è disposto a qualunque cosa pur di aggrapparsi agli ultimi scampoli di declinante virilità. E allora, ospite di un vecchio amico, s’inventa un sotterfugio pur di godere per una notte della compagnia della giovanissima e bellissima Marcolina (Bianca Panconi), che non lo degna d’uno sguardo.
Il film più o meno è tutto qui, in questa prevedibile cellula narrativa intorno alla quale ruota per tutta la sua durata, saggiamente breve. Salvatores ci aggiunge un gusto beffardo che salva il racconto dall’autocompatimento senile, infilando gag e un’ironia sorridente. Bernardi vive in una casa controllata dalla domotica che gli si ribella, o meglio ne asseconda gli umori, per cui la sua depressione si traduce in una rivolta degli oggetti di sapore slapstick.
E sono vitali, e in fondo umanissime, le sue reazioni livorose alle smancerie del giovane regista di sicuro avvenire (Marco Bonadei), che lui odia proprio perché è giovane e ha talento (come poi, con onestà, dovrà ammettere). O addirittura l’assalto con il fioretto ai giornalisti assalitori che vorrebbero strappargli una dichiarazione che confermi il vociferato blocco dell’artista che sta mandando ai matti il produttore (Antonio Catania) e l’amico montatore (Natalino Balasso). Dal lato del Casanova invece c’è un duello tra gentiluomini nudi come vermi, cosa che immediatamente spegne qualunque epica e mostra il ridicolo involontario delle passioni e dell’onore.
Al di là di questo, si faticherebbe a trovare una particolare urgenza espressiva ne Il Ritorno di Casanova, la cui cifra è una leggerezza disimpegnata e scherzosa. La quale però, proprio nello sfuggire alla gravità tribolata dell’artista di fronte alla sua opera (pensiamo agli stucchevoli fellinismi del recente Bardo di Iñárritu), nel suo non prendersi troppo sul serio contiene un apprezzabile granello di divertita saggezza. Anche perché tutto sommato, come dice il montatore Balasso, “morto un film se ne fa un altro”.