Il Sol dell’Avvenire è un film saggio. Un’opera autoriflessiva, metalinguistica, in cui Nanni Moretti, col piglio dell’ottimo critico cinematografico che sarebbe potuto diventare – e insieme del biografo di sé stesso che è sempre stato – ripercorre la sua opera, soprattutto quella novecentesca. Non lo fa per narcisismo, semmai per un istinto autarchico. Perché per gli artisti autentici la prospettiva individuale costituisce sempre il necessario punto d’avvio di una ricognizione più ampia che riguarda il proprio tempo e la storia collettiva, in cui il cinema rappresenta un dispositivo di rispecchiamento della realtà, sul filo di una continua dialettica tra dimensione pubblica e privata. A tal proposito, una volta il grande sceneggiatore Furio Scarpelli ha detto: “Moretti è come Gianburrasca, che fa del suo ego un burattino per specchiare gli altri, usa sé stesso per fare comunque narrazione sociale”.
Ed è quello che fa, ancora una volta, con Il Sol dell’Avvenire, sceneggiato da Moretti insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella. Il film racconta la vicenda di una coppia, il regista Giovanni (Moretti) e la produttrice Paola (Margherita Buy), che stanno lavorando al loro nuovo film, dedicato al 1956 e all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss, evento che mette in crisi il legame tra i personaggi interpretati da Ennio (Silvio Orlando) e Vera (Barbora Bobuľová), una unione cementata da una pluridecennale militanza nel Pci, lui fedele alla linea di partito, lei apertamente critica. Anche Giovanni e Paola sono in crisi. Lei dopo quarant’anni non ce la fa più a vivere col marito, e lo dimostra, prima che lasciandolo, cosa che le riesce complicatissima, accettando di produrre il film di un giovane regista che ha tutte le caratteristiche – a partire dall’uso smodato della violenza – di quel cinema che Giovanni non potrebbe mai accettare.
Il Sol dell’Avvenire insomma è un film su una coppia in crisi che gira un film su una coppia in crisi – “chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore”, dice infatti Vera a Giovanni, sottolineando che il privato è più importante del pubblico. Ed è in questa mise en abyme del cinema nel cinema il tratto più evidentemente felliniano di un film che intorno a Fellini ruota moltissimo, la sequenza mostrata de La Dolce Vita, il circo, un ingorgo da 8½, le sfilate piene di personaggi.
Tutto ciò però non si trasforma mai in Moretti in sterile vezzo citazionista. È più un bisogno di chiamare a raccolta tutto il cinema del Novecento – Charlot che “non delude mai”, Jacques Demy e La Caccia di Arthur Penn, persino il progetto di fare un film dal racconto Il Nuotatore di John Cheever (che c’è già, Un Uomo a Nudo di Frank Perry, con Burt Lancaster) – come strumento di difesa dalla deriva del nuovo millennio in cui Giovanni, e con lui un pezzo di almeno due generazioni, annaspa sgomento.
La ragione del continuo ripiegamento di Nanni Moretti sul proprio percorso d’artista – citato ne Il Sol dell’Avvenire con una tale disarmata impudicizia da eliminare alla radice qualunque accusa di egocentrismo – è legata a questo bisogno di trovare strumenti, ragionamenti, forme espressive attraverso cui arginare la logica povera di prospettive e gli orizzonti asfittici dei tempi nuovi – la sequenza coi produttori di Netflix, prima di essere una (gustosa) gag, è un affondo sul cinema algoritmo (un’epoca algoritmo) e le sue immodificabili regole narrative che assecondano, e producono, spettatori pigri.
Allora sarà il caso di escogitare qualcosa per arginarlo questo nuovo cinema e questo nuovo mondo. Come fa Giovanni il quale, assurdamente, piomba sul set del giovane regista (Giuseppe Scoditti), impedendogli per ore di girare l’ultima sequenza del suo film, una stupida, sciatta ed esaltata esecuzione, costringendo tutti a un’estenuante riflessione su etica ed estetica e sulle forme di rappresentazione della violenza. E lì, al netto della presenza di alcune guest star di cui si sarebbe potuto fare a meno, vale la riflessione fatta a partire dal Breve Film sull’Uccidere di Kieślowski, in cui emerge la lucidità del critico, del cinema e del costume, Moretti.
Purtroppo però – Moretti lo sa e Giovanni dovrà impararlo a sue spese – la realtà non può essere arrestata. Non ci si può nascondere dentro il film nel film degli anni Cinquanta e confidare nel valore taumaturgico dei riti dell’altro secolo. Infatti nelle scenografie del set sbucano continuamente fuori degli oggetti contemporanei anacronistici che mandano a gambe all’aria la tranquillizzante ricostruzione d’epoca (il produttore Mathieu Amalric addirittura usa quelle scenografie come una casa, illudendosi di poterci vivere).
E infatti Paola alla fine troverà il coraggio di lasciare Giovanni. Il mondo insomma, va avanti malgrado le nostre convinzioni. Pure Giovanni dovrà farci i conti, accettando cose che non gli vanno a genio (la relazione della figlia con un uomo che potrebbe essere suo padre se non suo nonno) e persino, faticosamente, cercando di intervenire sulla sua visione del cinema (che per Moretti vuol dire anche un po’ della vita), cambiando il finale del film.
Che cos’è allora Il Sol dell’Avvenire? Un film “utopico, o distopico?”, come chiedono a Giovanni i suoi collaboratori cercando di capire che tono dare a Il Nuotatore. Né l’uno né l’altro, o meglio tutti e due insieme. Con poca nostalgia per i tempi andati e più una dolorosa malinconia legata alla difficoltà di orientarsi nell’era nuova, alla quale si può solo opporre una canzone cantata e ballata comunitariamente come si faceva ai tempi di Palombella Rossa (cui quest’ultimo film, con la sua stratificazione dei livelli narrativi e il continuo fermarsi e ricominciare ogni due minuti, assomiglia moltissimo).
Certamente c’è qualcosa di volontaristico e persino sentimentale in questo atteggiamento. Non è che immaginando un partito comunista dalla parte della rivolta d’Ungheria e contro l’Unione Sovietica poi la storia cambi davvero. Però a questo servono il cinema e l’arte in generale – se ancora vogliamo pensarla in termini novecenteschi come arte politica e non solo intrattenimento –, narrazioni che immaginano il mondo “come se” fosse ancora possibile viverci dentro con dignità e credendo in certi valori. Per cui l’unica cosa che resta da fare è ribadirlo, ripercorrendo orgogliosamente, autarchicamente il cinema che si è fatto e la vita che si è vissuto. Sebbene alla fine tutto ciò più che come un gesto di resistenza suoni come un dignitoso commiato.