Vengo dal punk. Certo, ho molto ascoltato e molto amato anche artisti che col punk nulla hanno a che vedere, ma è il punk che ho scelto come cifra, andando in qualche modo a indicare una modalità che era anch superiore al mio gusto personale. Per intendersi, avrei preferito ascoltare Claudio Baglioni, ma era in Jello Biafra che mi riconoscevo. Quando quindi, a un certo punto, ho capito e subito dopo deciso che non era nella musica che avrei dovuto riporre le mie aspettative di vita, lasciando che il posto delle note fosse sostituito dalle parole, solo parole, magari anche parole appilcate alla musica, quel mashup sarebbe arrivato solo qualche anno dopo, era con lo spirito dei punk che l’ho fatto. Scrivevo con passione, con convinzione, volendo anche con l’alterigia che chi sa di avere un qualche talento, lo sa più perché glielo ha comunicato qualcuno di credibile che per propria autoconvinzione, e pensa che quel talento sia in qualche modo sufficiente a credersi anche stocazzo, ma non ho mai pensato che le parole fossero la mia salvezza. Non ho mai pensato che avrei potuto non avere ispirazione, conoscio forse anche prima del tempo che il talento unito al mestiere avrebbe sopperito nel momento in cui il talento da solo non sarebbe stato sufficiente. Non ho, cioè, guardato allo scrivere come a un posto meno spaventoso del mondo là fuori, perché sapevo che quello era in tutti i casi un posto che avrei dovuto frequentare a lungo, per pagarmi il pane, non solo per appagarmi l’ego. Mi sono anche divertito, per quanto sia possibile divertirsi lavorando, come immagino facciano certi attori porno, provando a fare del lavoro qualcosa di almeno non noioso, forte, me lo dico da solo, di una personalità sufficientemente strutturata per provare a forzare i canoni, diventando anche un personaggio, perché per poter essere sufficientemente forti da imporre una propria visione del mondo non basta certo solo scrivere, tocca anche apparire, o mostrarsi come uno che appare di rado, è il mio caso, lasciando ai social il compito di lasciar intravedere il mio lato più intimo, quella malinconia che in fondo fa parte della mia personalità tanto quanto l’ironia, una tendenza a macerarmi dentro pari alla necessità di inseguire una battuta, anche a rischio di compromettere altro.
Lo so, sembro poco lucido, e in fondo lo sono. Perché, non dico niente di particolarmente originale, i giorni delle feste sono più difficili da gestire a chi sposa la malinconia, la difesa dell’ironia come spuntata da quella mano di smalto che proprio le feste prevedono di loro, e perché il punto dove vorrei portarvi con questo mio scrivere, la libertà di essere un outsider baciato da un minimo di riconoscibilità mi concede il lusso di poterlo fare, è un punto nel quale, nonostante la mia poca lucidità, sarà immagino chiaro a tutti come le parole, quelle parole che ho deciso, a un certo punto, sarebbero state il mio strumento, a volte non sono affatto capaci di difendermi, amiche ingrate.
Quest’anno, Dio volendo, farò cinquantaquattro anni. L’idea che il tempo passi senza concedere nessun tipo di rallentamento, soste per pisciare e mangiarsi uno snack, mi è chiaro da molto tempo, ma diciamo che anno dopo anni è come se questa sua caratteristica mi colpisse in maniera inesorabile, come certi difetti fisici che sappiamo di non dover fissare, quando parliamo, che so?, con chi soffre di grave strabismo, e che finiamo ineluttabilmente per fissare tutto il tempo, continuando a chiederci quale dei due occhi dobbiamo fissare.
Lo sento, questo passare del tempo, quando mi ritrovo a pensare a tutte quelle cose che non ho fatto e che non avrò modo di fare, non necessariamente gesti fondamentali, anche una semplice telefonata. Lo sento quando vedo i pezzi del mio immaginario sgretolarsi intorno a me, lasciando scoperto un pezzetto di pelle che, sotto i raggi di un sole malato, si arrossiscono e bruciano come se avessi inavvertitamente toccato il forno, nel tirare fuori una terrina piena di patate arrosto. Lo sento urlare quando prendo consapevolezza che parole come quelle pronunciate da Gianluca Vialli riguardo l’esempio da dare ai nostri figli, io di figli ne ho quattro, che col loro crescere certificano giorno dopo giorno il mio invecchiare, per altro, sono parole ben più che sensate, seppur cariche di quell’epicità che solo una fine imminente può permettere loro, la vita quotidiana è meno radicale di quanto ci piacerebbe pensare, non lascia troppi spazi a passaggi di quelli che fermeremmo in un reel, figuriamoci in un video di qualche minuto. Per questo, poi, finiamo col dire cose che non vorremmo dire, lasciare esempi sbagliati, convinti, ce lo diciamo autoassolutori da soli, che non sia il singolo segmento a stabilire il valore della linea, tortuosa, che stiamo lasciando col nostro essere qui. Ci diciamo, indulgenti, che anche questo mostrarci fallaci è in fondo un insegnamento, un prepararli, i nostri figli, a non credersi infallibili, seppur poi da loro proprio infallibilità tendiamo a pretendere. Certo, ci piacerebbe poter dire che la vita dovrebbe essere un lungo srotolarsi di momenti salienti, senza passaggi di respiro, dimenticabili, quelle tracce infilate in scaletta tanto per arrivare a una lunghezza sufficiente, quelle che alla fin fine sono quasi sempre la parte portante di ogni lavoro, vorremmo tutti lasciare quei virgolettati buoni per accompagnare foto spettacolari, volendo anche il culo di una influencer posto in primo piano, un paesaggio esotico sullo sfondo, figuriamoci se non è questa l’ambizione di chi ha scelto di dedicare la propria vita professionale a inseguire le parole. Ma quasi sempre possiamo contare solo su un culo e un paesaggio, spesso neanche su quelli, perché troppo indaffarati a fare altro, per dirla con Lennon, a vivere, l’ineluttabili a avvolgerci solo quando in fondo vorremmo solo dormire, rilassarci, pensare finalmente a altro.