Gli Orsi Non Esistono, la lucidità del cinema della necessità di Jafar Panahi

Condannato dal regime iraniano, da un decennio il regista gira film in clandestinità, di cui è anche protagonista. Un cinema intelligente e smagliante, come mostra questo ultimo vertiginoso gioco tra finzione e realtà. Dal 6 ottobre in sala

Gli Orsi Non Esistono

INTERAZIONI: 183

Il primo piano sequenza di Gli Orsi Non Esistono di Jafar Panahi, vincitore del Premio della Giuria a Venezia 79, sembra uscire di peso da un film neorealista fedele alla filosofia del pedinamento di Zavattini e De Sica. Per restituire il respiro della vita vera indugia su figure prese di peso dalla realtà, destinate a occupare la scena solo per pochi istanti, fino a quando la camera si concentra sugli autentici protagonisti, una coppia di iraniani in Turchia che sta cercando un modo per emigrare a Parigi, procurandosi dei passaporti falsi.

Non è però più il tempo della fiducia “ingenua” nella macchina cinema, né della certezza che basti fissare lo sguardo con piglio documentario sulle cose di ogni giorno per restituirne immediatamente il senso autentico, senza filtri. Infatti, appena un istante dopo, la finzione si rompe sotto gli occhi dello spettatore, che scopre di non star guardando una storia che si srotola naturalisticamente davanti a lui, bensì di star assistendo, attraverso lo schermo di un computer, alle riprese che il regista Jafar Panahi sta dirigendo a distanza, dall’Iran, dando disposizioni a troupe e attori. Attori che forse sono gli autentici protagonisti di una vicenda non inventata, ma radiografia e cronaca di una dolorosa condizione di fuga perenne.

Gli Orsi Non Esistono è l’ultimo frutto di quel cinema della necessità, ostinato e clandestino che Jafar Panahi porta avanti da oltre un decennio. Da quando, nel 2010 venne condannato una prima volta per propaganda anti-governativa a una pena detentiva di sei anni tradotta in arresti domiciliari, con l’interdizione per vent’anni dal girare film e lasciare il paese. Recentissima, nel luglio scorso, s’è aggiunta una ulteriore condanna a sei anni, al seguito dei tentativi di Panahi di ottenere informazioni relative all’arresto dei suoi due colleghi registi iraniani Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, rei di aver criticato le autorità per la repressione delle proteste scoppiate in seguito al crollo di un edificio che aveva ucciso 43 persone nella provincia di Khuzestan il 23 maggio.

Da allora Panahi s’è inventato un cinema capace di assumere il limite come un’opportunità, trasformando nei primi due film successivi alla detenzione, This is not a film e Closed curtain, i confini dell’appartamento in cui era obbligato agli arresti domiciliari nel teatro degli avvenimenti, dei quali il regista è obbligato a diventare protagonista. Un’attitudine confermata anche dal successivo Taxi Teheran nel quale Panahi s’improvvisa tassista che, dall’abitacolo dell’automobile e attraverso le storie dei clienti caricati sulla macchina, continua a raccontare il paese da una prospettiva angusta che si fa immediatamente metafora di una condizione di limitazione delle libertà non individuale ma collettiva. Una denuncia del regime che, proprio attraverso la capacità di mettersi in gioco del regista-attore, si sottrae all’astrazione e alla genericità, rendendola qualcosa di fisico, palpabile – senza però mai scadere nella requisitoria a senso unico, né presentandosi narcisisticamente come un martire.

L’altro fattore determinante dei film di Panahi, in questo fedele al magistero di Abbas Kiarostami, sta nel riflettere costantemente sullo statuto del cinema, sempre in bilico tra finzione e realtà, per mettere costantemente alla prova la capacità delle immagini in movimento di farsi discorso critico e autentico sulla realtà, senza darlo mai per scontato. Per questo Gli Orsi Non Esistono incastra due vicende. La prima è quella del film nel film (storia vera? di finzione?) della coppia di iraniani in Turchia che sogna l’Europa. L’altra è quella di Panahi, che s’installa in un piccolo villaggio una remota regione di confine dell’Iran per controllare per quanto possibile da vicino le riprese del suo film – confine che però, quando gli è offerta l’occasione, si rifiuta di superare. Durante la permanenza la sua presenza dà nell’occhio, trascinandolo, a causa di una fotografia di due amanti clandestini che forse ha scattato e forse no, in una faida legata alle tradizioni del luogo.

Gli Orsi Non Esistono si muove lungo un crinale vertiginoso, in cui il tema relativo al confine di separazione, labile, che sussiste tra realtà e finzione, non si fa mai discorso metacinematografico intellettualistico, perché è sempre nutrito dell’urgenza del racconto concreto di un paese e di individui che vivono un dramma autentico. Il confine di cui si parla, insomma, non riguarda mai solo l’estetica cinematografica, ma l’esistenza dei protagonisti, dentro e ancor più fuori il film, a partire dal limite cui è sottoposto in prima persona il regista.

La condanna del regime, paradossalmente, dà nuova linfa al cinema di Panahi e al cinema in generale, ribadendo quanto ancora il linguaggio delle immagini possa farsi, invece che puro oggetto di consumo, discorso sulla condizione umana. Ed è proprio della grandezza di questo cineasta di rara lucidità il sottrarsi alla propaganda militante, grazie a un’attitudine problematica che s’interroga sulla capacità della macchina da presa di catturare il senso delle cose. Ricordandosi anche di quand’è il momento di distogliere l’obiettivo della camera – la questione inaggirabile della moralità dello sguardo. E chiedendosi, fino all’ultima scena, se il cinema possa recare un contributo efficace di testimonianza e trasformazione della realtà o se invece filmare non corra il rischio di ridursi a esibizionistico, impotente gioco fine a sé stesso.

Continua a leggere su optimagazine.com