“Una lettera d’amore al cinema” ha detto Darren Aronofsky, presidente della giuria al festival di Berlino, leggendo la motivazione per l’Orso d’oro a Taxi Teheran, il nuovo film di Jafar Panahi. Il regista iraniano, com’è noto, ha subito una condanna per propaganda anti-islamica, con una sentenza che l’ha obbligato agli arresti domiciliari, poi commutata in un regime di libertà che non gli consente di realizzare film, rilasciare interviste e lasciare il paese (il premio berlinese l’ha ritirato, commossa, Hana Saeidi, nipote del cineasta e interprete del film).
Panahi però non si è fermato: ha girato in clandestinità altre tre pellicole, fedeli alla sua poetica, che parlano di impegno politico e riflettono sulla natura del cinema senza trasformarsi in propaganda anti-regime e senza che il regista si autocelebri come un martire.
Il discorso critico affiora dalla presenza di alcune costanti tematiche: primo, i film sono girati dentro confini spaziali delimitati – le mura di un’abitazione in This is not a film e Closed curtain, lo spazio angusto del taxi nell’ultima opera –, che si fanno metafora di una condizione di disagio condivisa e non personale; secondo, la capacità di mettersi in gioco di Panahi, che recita da protagonista e così sottrae la denuncia all’astrazione, rendendola qualcosa di fisico, palpabile; terzo, costruire racconti che si muovono tra realtà e finzione, imbevuti dell’autentica vita del regista ma non trasformati in cronaca documentaria.
In Taxi Teheran il tassista Panahi scarrozza i passeggeri per una città vista solo dall’interno dell’abitacolo: e il film è costruito in modo da non far capire se si tratti di persone vere o attori, amplificando l’ambiguità e il cortocircuito tra realtà e finzione. Alcuni riconoscono il regista: il venditore di dvd di contrabbando, l’avvocatessa Nasrin e Omid, che parla del caso – vero – di Ghoncheh Ghavami, arrestata perché voleva assistere alla partita di pallavolo Iran-Italia (storia sorprendentemente simile a quella raccontata da Panahi in Offside). Naturalmente lo riconosce la nipotina Hana, che chiede allo zio dritte cinematografiche, perché come compito scolastico deve girare un cortometraggio. O meglio un “film distribuibile”, come la petulante ragazzina sottolinea, il che significa un’opera rispettosa del decalogo fornitole dalla maestra, zeppo di norme censorie che impongono regole d’abbigliamento (i cattivi indossano la cravatta, cioè sono occidentali) e rappresentazione della violenza.
Ovviamente attraverso clienti e brandelli di città che scorrono dal parabrezza Panahi racconta, con qualche didascalismo, l’Iran contemporaneo. C’è lo scippatore favorevole alla pena di morte, l’uomo ferito che temendo di morire registra sullo smartphone il testamento a favore della moglie (parlando di condizione femminile), due bizzarre anziane con dei pesci rossi che hanno una gran fretta. Il tono non è rigidamente accusatorio e sa dare spazio all’ironia: nell’episodio delle due donne, col personaggio buffo e saccente di Hana e persino con Panahi, tassista che non conosce le strade cittadine.
Taxi Teheran mantiene in equilibrio impegno civile e gusto di vivere, con uno sguardo sulla realtà paradossale e incuriosito. Con alcune soluzioni visive di grande forza metaforica: la sequenza d’apertura, in cui dall’automobile lungamente ferma al semaforo si vede una porzione di città sempre uguale, a indicare una generale stasi politica e sociale; la rosa rossa lasciata dall’avvocatessa sul cruscotto, controcanto poetico e ottimista alla durezza del vivere; e il finale, che non sveleremo, sulla rischiosa condizione dell’arte cinematografica, perennemente sottoposta al pericolo di essere ridotta al silenzio d’uno schermo nero.