Nel loro primo incontro, parlando con il – tra tante altre cose – mirmecologo Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), il giovane Ettore (l’esordiente Leonardo Maltese, bravissimo) sottolinea un aspetto della vita delle formiche, il loro essere dotate di uno “stomaco sociale”, nel quale il cibo viene immagazzinato affinché possa essere utilizzato per nutrire le altre formiche della colonia. Insomma, questi insetti sono in grado di anteporre il bene collettivo a quello personale. “È una bella metafora”, dice Ettore.
Il Signore delle Formiche, il nuovo film di Gianni Amelio in concorso in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia e uscito in contemporanea, dall’8 settembre, nei cinema, è costruito esattamente come questa battuta, sempre preoccupato di spiegare alla lettera sottotesti e metafore, quasi non si fidasse della capacità interpretativa di un pubblico da istruire con una lezione di educazione civica priva di ambiguità e sfumature.
Amelio ha accettato la proposta giuntagli dai produttori di affrontare una storia, come si è soliti dire in questi casi, importante e necessaria, quella della singolare figura di irregolare ed eretico che fu Aldo Braibanti. Nato nel 1922 in provincia di Piacenza, laureato in filosofia, sovversivo arrestato negli anni del regime e torturato dai nazifascisti a Villa Triste, dopo la Liberazione fu un dirigente del Pci, fino all’abbandono della politica attiva, per dedicarsi unicamente alle sue passioni, la mirmecologia appunto, poesia, ceramica, drammaturgia e cinema sperimentale (nella sua minuscola abitazione, da una sua pièce, fu girato da Alberto Grifi Transfert per camera verso Virulentia). Fu un intellettuale senza cattedra, chiamato da tutti “professore” – benché non lo fosse – per la sua vocazione pedagogica che lo portò a creare un cenacolo frequentato da tanti giovani, vicino a una rete di intellettuali che lo apprezzava e che comprendeva Carmelo Bene, il compositore Sylvano Bussotti, il gruppo dei “Quaderni Piacentini”, la più importante rivista di movimento degli anni Sessanta, con i fratelli Piergiorgio e Marco Bellocchio.
Il nome di Braibanti, la cui vicenda è stata anche ricostruita da Il caso Braibanti, documentario del 2020 di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, reperibile su Prime Video, deflagrò nell’Italia degli anni Sessanta per il processo intentato contro di lui per plagio – «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”, così recitava l’articolo 603 del codice Rocco fascista, dichiarato incostituzionale solo nel 1981. Braibanti è stata l’unica persona nella storia patria condannata per quel reato, a una pena di nove anni, poi ridotta a due in appello per i suoi trascorsi di partigiano. Ma non il plagio, come evidenza Il Signore delle Formiche fu la sua colpa, ma il suo essere un omosessuale che aveva scelto di vivere la sua storia d’amore con l’allievo, largamente maggiorenne, Giovanni Sanfratello (che nel film diventa Ettore), col quale si trasferì negli anni Sessanta a Roma. Dove li raggiunsero i familiari ultracattolici di Giovanni, che rapirono il ragazzo, sottoposto a una cura psichiatrica con decine di elettrochoc, alla fine della quale nel 1966 fu dimesso con l’obbligo di “non leggere libri che non abbiano meno di cent’anni”.
Il Signore delle Formiche ritrae un paese retrivo e spaventato, in un decennio, i Sessanta, che furono un impasto di spinte e accenti innovativi mescolati a una cultura per larghi tratti ancora premoderna, perbenista, chiusa. Gli intenti di Amelio sono lodevoli, e condotti anche attraverso una prova d’attore introiettata e taciturna di Lo Cascio, attenta a costruire un protagonista ruvido che non diventa mai simpatico e col quale si fa volutamente fatica a identificarsi – “io non voglio essere né mostro né martire”, gli fa dire la sceneggiatura a sei mani scritta dal regista con Edoardo Petti e Federico Fava.
Il racconto però non convince, con la sua struttura in due atti – prima il nascere del rapporto intellettuale e affettivo tra i due protagonisti, poi il processo – che seguono un arco narrativo marcatamente scandito, che pone in qualche caso anche dubbi di verosimiglianza storica. È pur vero che in apertura una didascalia sottolinea come Il Signore delle Formiche sia “liberamente ispirato” al caso Braibanti, e un autore ha certo il diritto di rileggere a modo proprio la storia, senza dover necessariamente riprodurre alla lettera i fatti. Lascia comunque perplessi la vicenda del giornalista dell’Unità Marcello (Elio Germano), che segue il processo lottando strenuamente col direttore che gli censura i pezzi e gli impedisce di scrivere la parola “omosessuale”. Basta controllare l’archivio on line del giornale per verificare come le cose non stessero esattamente così, trovando diversi articoli del tempo, come uno del 17 giugno del Sessantotto, in cui il termine viene usato. Maurizio Ferrara in prima pagina il 13 luglio fu poi inequivocabile: “Se c’è infatti qualcosa di marcio che il processo Braibanti sta dimostrando non è tanto l’esistenza dell’omosessualità, quanto la ferocia razzista, il dileggio becero, l’odore di linciaggio che il suo sospetto scatena in ambienti nei quali la “morale” si identifica con il moralismo più oscurantista e repressivo».
Sicuramente Amelio ha inteso ricostruire una temperie culturale in cui – la vicenda di Pasolini, che scrisse di Braibanti e la cui figura in qualche modo aleggia sul film, sta lì a dimostrarlo – il Pci fu tutt’altro che esente da conformismo e omofobia, come sottolineato anche dal personaggio di fantasia di un bigotto avvocato comunista, guarda caso proveniente da quella provincia di Catanzaro che è la stessa di Amelio, il quale avrà sicuramente incontrato in quegli anni compagni disposti a manifestare per il Vietnam ma non per i diritti degli omosessuali. E però colpisce la scelta di aver sacrificato la veridicità dei fatti a vantaggio d’una tesi che così rischia di sembrare pregiudiziale – con anche una scena pesantemente didascalica, in cui il direttore del giornale pasteggia al grand hotel con una delegazione sovietica inorridita dalla storia di Braibanti, davanti a uno sbigottito Marcello che oltretutto, contrariamente al suo vanesio superiore, il russo lo parla davvero.
Il racconto procede lungo il filo di questa esemplarità insistita, sul cui piano si sacrificano dettagli significativi. Per esempio, per accentuare la solitudine di Braibanti, si preferisce omettere che a suo favore si espressero intellettuali di primo piano, come dimostra Sotto il nome di plagio, volume della Bompiani del 1969 firmato da Umberto Eco, Moravia, Musatti, Ginevra Bompiani, Adolfo Gatti, Mario Gozzano; e che i radicali di Marco Pannella furono attivissimi sul caso, stampando un ciclostile di controinformazione ogni mattina distribuito all’ingresso del tribunale. Invece ne Il Signore delle Formiche a dimostrare c’è solo uno sparuto gruppo di volenterosi giovani, tra cui la cugina di Marcello (Sara Serraiocco), mentre Amelio, in maniera artisticamente legittima, ma abbastanza discutibile, invece di mostrare Pannella preferisce una inquadratura della Emma Bonino di oggi, che all’epoca non militava nemmeno nel movimento radicale.
Non mancano scelte visivamente perspicue: il primo dialogo in carcere tra Braibanti e Marcello in cui i campi e controcampi dei due personaggi sono sempre ripresi da dietro la sbarre, a sottolineare una prigionia culturale prima che fisica che riguarda evidentemente un intero paese; la deposizione di Braibanti, nella quale la camera resta sempre sul primo piano del protagonista, mentre le domande insinuanti e capziose dei giudici restano pure voci senza volto, a rimarcare l’anonimato, per questo ancora più spaventoso, del potere che grava sui poveri cristi – qui Amelio si autocita, rimandando allo straziante interrogatorio di Renato Carpentieri a Enrico Lo Verso nel bellissimo Il Ladro di Bambini.
Il Signore delle Formiche non si sottrae però alla sensazione del film a tesi in cui ogni personaggio deve incarnare il suo ruolo in commedia al fine di costruire il ritratto immorale d’un nazione ipocrita, anacronistica. E non aiuta anche il distacco analitico con cui è descritto l’amore freddo tra Aldo ed Ettore, privo di trasalimenti e passione. Troppo occupato dall’esposizione del suo teorema da cinema civile, il film rinuncia in partenza al melodramma, che l’avrebbe magari aiutato a sottrarsi a un’atmosfera ingessata e un po’ artefatta.
Eppure il genere tenuto fuori dalla porta rientra dalla finestra: nell’uso alla Bertolucci delle arie operistiche; nella fotografia che si fa via via sempre più giallastra e decadente; nell’incontro finale tra Aldo ed Ettore, con un insistito primo piano conclusivo che fa pensare al bertolucciano Guadagnino di Chiamami col Tuo Nome. Lasciando l’impressione che una temperatura più scomposta e incontrollata avrebbe giovato alla verità emotiva e storica del film. Seguendo quella lezione di Braibanti enunciata nella sequenza in cui, durante una prova, il drammaturgo invita gli attori a non marcare il significato, a spezzare le frasi e persino le parole. Cosa che Il Signore delle Formiche non ha mai davvero il coraggio di fare.