Top Gun: Maverick, Tom Cruise e il ritorno degli anni Ottanta

Questo non è un film che gioca sulla nostalgia degli anni Ottanta. Qui ci sono gli anni Ottanta, belli e buoni. Lo dimostra il corpo immutabile, inscalfibile, atemporale dell’unico vero divo globale. Dal 25 maggio in sala

Top Gun: Maverick

INTERAZIONI: 202

Non appena nei titoli di testa si vedono comparire nomi come quello del produttore Jerry Bruckheimer o del compositore Harold Faltermeyer (autore delle colonne sonore synth-pop simbolo degli anni Ottanta, si pensi pure a Beverly Hill Cop), subito si capisce che tipo di film è l’attesissimo – sono passati 36 anni dal prototipoTop Gun: Maverick.

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: questo non è un film che gioca sulla nostalgia degli anni Ottanta. Qui ci sono gli anni Ottanta, belli e buoni, senza un minimo di distanziamento critico o temporale. Certo, nel momento in cui compare il corpo invecchiato e provato di Val Kilmer, l’Iceman una volta avversario e poi amico per la vita del protagonista Maverick, si misura la distanza dal tempo che fu e si coglie quanto possa essere crudele il passare degli anni.

Ma è un momento di commozione che dura un attimo. Per il resto il film diretto da Joseph Kosinski resta ancorato al modello di partenza, quasi un fossile sbucato fuori da quarant’anni prima. Un pezzo di cinema, in primo luogo, ostinatamente analogico, che usa gli effetti speciali solo lo stretto indispensabile e sbandiera ai quattro venti (a proposito di bandiere, quante a stelle e strisce se ne vedono in questo film) l’autenticità di tutti gli stunt girati dal vero.

Al centro della scena, a dominarla letteralmente, c’è il corpo immutabile, inscalfibile, atemporale del suo protagonista e produttore Tom Cruise, sul quale lo scorrere dei decenni ha lasciato segni assai moderatamente percettibili. Un corpo puramente cinematografico quello del divo più divo di tutti. Perché la sua consistenza fisica resta tutta interna ai confini del grande schermo (l’unica dimensione che gli appartiene e che riesca a contenerlo: per questo, come ha dichiarato, non fa film per lo streaming), nemmeno scalfita o umanizzata dalle sue apparizioni pubbliche, l’ultima pochi giorni fa a Cannes, che non rivelano mai nulla dell’uomo dietro l’attore e i personaggi che interpreta. Che è anche l’unico modo per salvaguardare il proprio mito.

E proprio poiché è dentro il perimetro cinematografico, Tom Cruise non invecchia, fotografia perfettamente conservata di sé stesso – non è vero, come diceva Cocteau, che il cinema è la morte al lavoro sull’attore, è esattamente l’opposto. A questo punto, stabilite le coordinate fondamentali del film, tutto il resto ne può conseguire come da previsione. Così si srotola la vicenda, che curiosamente richiama quella di Gunny di Clint Eastwood – ma senza l’autoironia e la presa in giro dei rituali militari – del capitano Maverick, che ovviamente non ha fatto carriera perché riottoso alle regole, richiamato per un’ultima volta per addestrare i migliori Top Gun esistenti a una missione suicida per sventare una minaccia nucleare.  

C’è esattamente tutto quello che già c’era negli anni Ottanta in Top Gun: Maverick. L’ideologia da guerra fredda, stavolta indirizzata contro un nemico senza nome, un po’ per prudenza sicuramente, un po’ perché – la scelta di sceneggiatura è geniale nella sua semplicità – l’importante è che ci sia un nemico, senza volto e senza identità, rispetto al quale distinguersi e riconoscersi quali i buoni contro i cattivi. E poi ritornano, senza pudore e ripensamenti, quelli che Susan Jeffords all’epoca definì gli “hard bodies”, i corpi traslucidi e palestrati degli eroi americani. Che nel primo Top Gun erano tutti maschi e bianchi mentre oggi – d’accordo, qualcosa è cambiato – il politicamente corretto impone una composizione etnicamente mista e anche la presenza di una donna. Ma son sempre tutti maschi e femmine alfa, che si stagliano sullo sfondo di immagini sempre inconfondibilmente riprese nella luce della golden hour, così perfettamente liricizzante, epica, ruffiana.

Sono eroi – come Miles Teller, figlio di Goose, il copilota della cui morte Maverick si sente ancora responsabile – straordinariamente efficienti, seppur con qualche minima incrinatura emotiva a definirne l’umanità. Perché questo è cinema analogico e quindi anche umanista, in cui, come viene ampiamente ripetuto, “non è l’aereo che conta, è il pilota”. Per cui può anche succedere che un vecchissimo F14 riesca a sfangarla, dato che a guidarlo c’è quello che, nel 1986 come oggi, resta il migliore di tutti, l’intramontabile Maverick Tom Cruise.

Top Gun: Maverick riavvolge il nastro del tempo e restituisce allo spettatore contemporaneo un’esperienza di visione che risponde a codici produttivi, stilistici, ideologici oggi praticamente irriconoscibili. In questo è un dispositivo cinematografico affascinante, che mette i brividi. Quasi quasi ci si aspetta che, da un momento all’altro, da qualche parte sbuchi fuori Ronald Reagan.

Continua a leggere su optimagazine.com