Il Laureato, le ansie di una generazione nel cult movie con Dustin Hoffman

Uscito nel 1967, anticipò la voglia di ribellione del Sessantotto. È anche una tappa fondamentale verso la New Hollywood. Che nel tono dolceamaro, fa pensare alla commedia all’italiana

Il Laureato

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Dalla sequenza d’apertura sui titoli di testa de Il Laureato (The Graduate, 1967), già intuiamo tutto quel che c’è da capire sul protagonista Benjamin (travolgente esordio di Dustin Hoffman), tornato a casa in California dopo aver ottenuto l’agognato titolo di studio che ogni ragazzo di buona famiglia deve conseguire per occupare da adulto il suo rispettabile posto in società. Appena sceso dall’aereo, accompagnato dalle parole non esattamente ottimiste di The Sound Of Silence dell’epocale colonna sonora di Simon & Garfunkel, “Hello Darkness, My Old Friend”, vediamo il giovane trasportato dal tapis roulant sullo sfondo d’una anonima parete bianca. Pare poco più d’un pupazzo, mosso suo malgrado, eterodiretto da un sistema nel quale non si riconosce e nel quale fatica a trovare una collocazione.

Per un attimo indossa un sorriso di prammatica per salutare i genitori, poi ricompare, in primo piano, lo sguardo sperduto, sullo sfondo inequivocabile di un acquario, quello in cui si dibatte con la paura di andare a fondo definitivamente. In un veloce scambio con il padre, che lo invita a raggiungere i buoni amici di famiglia alla festa organizzata in suo onore, gli dice di essere preoccupato per il suo avvenire, che vorrebbe fosse “diverso”. È già qui il senso di un film, Il Laureato, che velocemente divenne un simbolo epocale, perché riuscì con felice intuito a intercettare, dando loro una forma non immediatamente politica, bensì emotiva ed esistenziale, le ansie di una generazione. La quale, come Benjamin, si stava chiedendo quale fosse il suo posto nel mondo.

A Mike Nichols, che ricavò il film a partire dal romanzo omonimo di Charles Webb sceneggiato da Buck Henry (dopo una prima versione reputata insoddisfacente di Calder Willingham), bisogna riconoscere il merito di aver trovato uno stile adeguato all’argomento, pieno di notazioni visive che rimandano a sfumature psicologicamente e socialmente rilevanti. Già l’anno precedente in Chi ha Paura di Virginia Woolf?, partendo dalla testo teatrale premio Pulitzer di Edward Albee, Nichols aveva realizzato, nel suo esordio alla regia, un affondo dentro gli scricchiolii dell’istituzione familiare, mettendo in scena una claustrofobica stanza della tortura in cui si dibattono due coppie tra ipocrisie, debolezze, desideri frustrati. Pure Benjamin continua a dibattersi, anche se rispetto ai logorroici protagonisti di Albee lui ha un’aria taciturna, sconfitta, distante. Ascolta sgomento i calorosi amici di famiglia che gli fanno mille complimenti. Un tale lo prende da parte e gli dice di considerare che “il futuro è la plastica”. Lui teme già di vederlo il suo avvenire di plastica.

Per un attimo s’illude che la soluzione, la diversità rispetto a ciò che gli è intorno, possa offrirgliela la signora Robinson (Anne Bancroft), moglie del socio di suo padre, una donna sposata più grande di lui (sebbene, come è noto, la Bancroft avesse appena sei anni più di Hoffman), con la quale inizia una storia clandestina. Significativo che la tresca cominci quando lei gli chiede di accompagnarla a casa in auto, gettando le chiavi della macchina nell’acquario. Il che, simbolicamente, fa immaginare che nell’acquario lei sappia nuotare e possa insegnare a Benjamin come farlo per evitare di affogare. E integrarsi.

L’altra novità de Il Laureato, che lo fa essere un progenitore certo della appena nascente New Hollywood, è nel tono del film, che rifiuta di appartenere a un genere definito, muovendosi tra il melodramma che, visto il tema, sembrerebbe destinato a essere, e la commedia che lambisce continuamente. Cosa tutt’altro che inaspettata, visto che Mike Nichols veniva dalla commedia, frequentata sia come attore, negli sketch costruiti negli anni Cinquanta insieme a un’altra figura di grande talento della sua generazione, Elaine May, che da regista teatrale, con messinscene dei testi umoristici di Neil Simon come La Strana Coppia e A Piedi Nudi nel Parco. Ed è questa una delle chiavi che regalano a Il Laureato la sua autentica forza satirica, e una freschezza di sguardo che ha retto bene il passaggio di oltre mezzo secolo.

Benjamin chiede alla signora Robinson: “Sta cercando di sedurmi?”, con un tono che sembrerebbe di scandalizzato perbenismo. Aggiungendo però dopo un istante di pausa un “Oppure no?”, con espressione preoccupata, che da un lato rivela come evidentemente l’idea non gli dispiaccia affatto e, dall’altro, trasforma all’istante una situazione potenzialmente drammatica in un momento comico, che rivela la goffaggine del protagonista, alle prese con desideri che non riesce a maneggiare e nemmeno ad ammettere a sé stesso.

La celebre immagine utilizzata per il manifesto de Il Laureato

Col senno di poi, al di là del fatto di intercettare la voglia di anticonformismo di un’epoca, la qualità maggiore de Il Laureato è nella sua sottile capacità di rinnovamento dei generi, tramite una cadenza agrodolce che a tratti fa pensare alla commedia all’italiana – nella quale un tema fondamentale è sempre stato, per i suoi protagonisti, quello di capire quale fosse il proprio posto all’interno di un mondo che, in virtù delle trasformazioni portate dal miracolo economico, sollecitava continui interrogativi identitari.

Da commedia all’italiana è il finale de Il Laureato. Benjamin ha capito che la tresca con la signora Robinson, in cerca soltanto di un’avventura, non può fornirgli risposte alle sue inquietudini. La risposta invece può dargliela la figlia di lei, Elaine (Katharine Ross), di cui si scopre perdutamente innamorato. Al punto da decidere di uscire dall’acquario e prendere in mano la propria esistenza, correndo all’impazzata verso la chiesa per impedire il matrimonio che i genitori di lei le hanno organizzato con un ragazzo con la testa a posto. È una sequenza meritatamente celebre. Il primo elemento da commedia all’italiana è nel mescolamento di toni contenuto nella straordinaria gag che Nichols inserisce nel bel mezzo del dramma, con il crocifisso utilizzato per minacciare gli invitati e bloccare la porta della chiesa, impedendo ai benpensanti di fermare la loro fuga. Da sottolineare in aggiunta che Elaine decide di scappare con Benjamin quando, osservando lo sposo, realizza che ha sul volto lo stesso ghigno rabbioso dei suoi genitori. A quel punto capisce di star sposando un’esatta replica di suo padre.

Il secondo momento da commedia all’italiana è nell’ultima parte della sequenza, in cui i due fuggiaschi sull’autobus si guardano felici del coronamento del loro sogno d’amore. Il punto è che l’inquadratura dura troppo a lungo. Così sui loro volti appaiono mille sfumature, di gioia ma anche di incertezza, sul futuro e forse anche sul loro gesto di ribellione, più istintivo che consapevole. E nel frattempo ritorna a commento l’“Hello Darkness, My Old Friend” dell’inizio.

Così com’è costruita, la scena sembra rimandare a quella conclusiva di Una Vita Difficile di Dino Risi, un film di pochi anni prima, il 1961. Il personaggio interpretato da Alberto Sordi ha appena gettato in piscina con un sonoro ceffone il commendatore per cui lavora, che lo tratta come un servo. Così riconquista la sua dignità, anche agli occhi della moglie Lea Massari, e insieme abbandonano la festa. Lei però non pare completamente convinta della forza liberatoria del gesto del marito. Quale avvenire li attende? Resteranno insieme, saranno felici? Sono gli stessi interrogativi che affiorano guardando il finale altrettanto sospeso e ambiguo de Il Laureato. Che restituisce il modernissimo senso di precarietà di vite per le quali è diventato difficile trovare risposte definitive e rassicuranti.

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