Scompare a 71 anni, le ragioni della morte non sono state ancora divulgate, William Hurt. Nato a Washington nel 1950, prima cresciuto in giro per il mondo seguendo i genitori divorziati, poi studente di teologia all’università, poi attore con le prime esperienze di recitazione in un festival shakespeariano in Oregon, Hurt è stato uno dei migliori interpreti della sua generazione e, lungo tutti gli anni Ottanta, un autentico divo.
In quel periodo Time lo definisce “l’idolo Wasp del cinema degli anni Ottanta”, lanciandolo come una sorta di Robert Redford dell’epoca, alto, biondo, magnetico, da un lato freddo ed enigmatico, dall’altro capace di dare vita a personaggi ambigui e psicologicamente contorti.
Al cinema appena arriva lascia immediatamente un segno incisivo della sua presenza. Il suo primo film è Stati Di Allucinazione (1980) di Ken Russell, nel quale è uno scienziato ossessionato che funge da cavia per le sue stesse ricerche sulla deprivazione sensoriale. L’anno dopo è il protagonista di una delle opere decisive del decennio, Brivido Caldo di Lawrence Kasdan, caposaldo del neo-noir americano, film ad alto tasso di erotismo in cui, accanto a Kathleen Turner, William Hurt è un mediocre avvocato manipolato dalla classica femme fatale.
Questo film fa di lui una star e un sex symbol: una dimensione che viene confermata, ancora in un film diretto da Kasdan, ne Il Grande Freddo (1983), titolo rimasto proverbiale e rappresentativo di un’epoca. Una sorta, restando al parallelo con Redford, di Come Eravamo degli anni Ottanta, con un gruppo di amici, tra cui il reduce del Vietnam drogato interpretato da Hurt, che si ritrovano col peso delle loro illusioni e fallimenti, al funerale di uno di loro.
Sono quegli gli anni in cui l’attore non sbaglia un film: c’è Gorky Park (1983) di Michael Apted, con le prime prove di un mondo post guerra fredda, grazie al ruolo di William Hurt nella parte di un incorruttibile ispettore sovietico alle prese con un omicidio in una intricata spy story d’ambientazione moscovita. E poi giunge, a testimoniare la velocità del suo acquisito stardom, il premio Oscar come migliore attore ne Il Bacio Della Donna Ragno (1985) di Hector Babenco, per un ruolo di grande complessità, un carcerato gay detenuto nella prigione di un paese latino-americano con la passione per i vecchi film hollywoodiani, messo in cella insieme a un progioniero politico per estorcergli informazioni. La vittoria della statuetta con un ruolo apertamente omosessuale e en travesti rappresentò, oltretutto, un momento di discontinuità importante nella storia dell’Academy.
Anche Figli Di Un Dio Minore (1986) di Randa Haines costituì una novità importante per Hollywood, primo film mainstream di notevole successo sul tema della disabilità, con William Hurt che cerca di spiegare che cos’è la musica a una donna sordomuta (Marlee Matlin, protagonista di una storica e inclusiva vittoria dell’Oscar). Ma se si dovessero indicare i ruoli che meglio esprimono il valore dello stile interpretativo di William Hurt, sceglierei i successivi due. Il primo è Dentro La Notizia (1987) di James L. Brooks, in cui Hurt è un anchorman di grande successo e nessun talento, un uomo tutto di superficie, mediocre giornalista ma straordinario venditore di sé stesso, attore nato capace di piangere a comando, un perfetto manipolatore del pubblico e creatore di notizie a tavolino, simbolo inquietante di un mestiere che s’andava velocemente spettacolarizzando, in cui il successo arride all’uomo vuoto e nuovo cui Hurt presta il suo volto enigmatico.
Non meno enigmatico era il protagonista del notevole Turista Per Caso (1988), ancora con Kasdan, un timido autore di guide da viaggio scritte per non viaggiatori, ritratto di un individuo introverso e spaventato dalla vita, che Hurt rende con quel suo sguardo singolare, che sembra non guardare mai in nessuna direzione.
L’attore però si fa anche una fama di attore pignolo con cui è difficile lavorare. Fatto sta che, dopo quello straordinario decennio i ruoli davvero significativi mancano e Hurt non riesce, o chissà forse non ha neanche interesse, a mantenere lo stardom divistico e s’infila in progetti più arrischiati e spesso fallimentari. Qualche volta il fallimento è grandioso e a suo modo interessante, come nello sperimentale e ambiziosissimo Fino Alla Fine Del Mondo (1991) di Wim Wenders, primo vero flop del regista tedesco. Talvolta l’esito è semplicemente legnoso, come nella dimenticabile versione de La Peste (1992) di Camus firmata da Luis Puenzo.
In qualche occasione ci sono ancora ruoli all’altezza del suo talento sottile, come Smoke (1995) di Wayne Wang o il tentativo di commedia intelligente Un Divano A New York (1995), firmato da una raffinata regista europea come Chantal Ackerman, in cui Hurt interpreta un ricco psicoanalista in crisi. Talvolta capitano film semplicemente di routine, come la commedia in stile new age Michael di Nora Ephron, o titoli fantascientifici che non sembrano francamente nelle sue corde come Dark City (1997) o Lost In Space (1998).
Dopo il 2000 come tanti, anche William Hurt si ritrova a ricoprire dei ruoli secondari nel filone supereroistico, da L’Incredibile Hulk a, recentemente, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame. Ma per ritrovare la cifra migliore del suo stile d’attore è meglio guardare a un apologo sconsolato come il bellissimo A History Of Violence (2005) di David Cronenberg, in cui William Hurt è uno spietato criminale simbolo della bruttezza di un mondo che è impossibile redimere. Fu l’ultima volta, la quarta, in cui l’attore dopo molti anni ottenne una meritata nomination per l’Oscar.