Flee, l’emozionante documentario animato che è il vero caso degli Oscar 2022

Il film di Jonas Poher Rasmussen unisce animazione e immagini di repertorio per raccontare la storia vera di un rifugiato afghano in Europa. Un’opera pudica e sorprendente, premiata dall’Academy con tre nomination. Dal 10 marzo in sala

Flee

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Già l’eterogeneità delle tre nomination all’Oscar 2022 di Flee chiarisce la singolarità del film diretto dal regista danese Jonas Poher Rasmussen, che ha ottenuto, primo nella storia dell’Academy, la candidatura come miglior film d’animazione, film internazionale e documentario.

Flee è infatti un progetto in cui sempre più l’animazione mostra la sua duttilità di dispositivo inclusivo, capace sia dal punto di vista dei contenuti che della forma di inglobare molteplici istanze narrative, riuscendo anche a rendersi appunto documento, trascrizione in disegni animati di una lacerante storia vera, rispondendo a un autentico bisogno di testimonianza.

La storia è quella di Amin, nome di fantasia dato a un caro amico dello stesso regista, giovane e affermato docente universitario omosessuale che vive in Danimarca, sul punto di sposare il suo compagno. Proprio questa possibile stabilizzazione sentimentale lo fa tentennare, spingendolo a far riaffiorare le tracce della sua terribile vicenda personale, di cui nemmeno il futuro marito sa nulla. Una storia sepolta sotto anni di menzogne, mezze verità e cancellazioni traumatiche necessarie al suo equilibrio emotivo e materiale.

Il brillante professore Amin, ben integrato nel confortevole nord Europa, è in realtà un rifugiato proveniente dall’Afghanistan, passato negli anni Novanta insieme ai suoi familiari attraverso una lunghissima odissea per sfuggire al regime dei Mujaheddin. Prima trasferendosi a Mosca, nell’unico paese per il quale avrebbero potuto ottenere un visto turistico e poi, scaduto questo, costretto a nascondersi cercando un modo per raggiungere l’Europa occidentale e la sicurezza, viaggiando da clandestino, mettendosi nelle mani dei trafficanti di esseri umani.

Flee, che vede tra i produttori esecutivi anche Riz Ahmed (Sound of Metal) e Nikolaj Coster-Waldau (Il Trono di Spade) è una vicenda straziante costruita come una seduta analitica, nella quale Amin, steso sul lettino, è invitato dall’amico Jonas a lasciar fluire i suoi pensieri, ritrovando nella memoria le tracce malcerte di eventi così dolorosi da essere stati, per sopravvivere, quasi cancellati. E così decide di restituirle il linguaggio dell’animazione scelto dal regista, che ai cartoon nitidi e bidimensionali delle parti riguardanti l’oggi alterna i disegni più astratti, con figure umane ridotte a silhouette, che raccontano il passato. Una soluzione visiva che da un lato rimanda alla fragilità traumatica dei ricordi, che assumono una forma incerta quasi allucinatoria; e dall’altro intende anche essere un espediente pudico, non ricattatorio o effettistico, per ripercorrere una vicenda in cui il dramma è talmente evidente da non necessitare di amplificazioni spettacolari.

Oltre al duplice tratto dei disegni, Flee utilizza anche degli inserti di filmati di repertorio dal vero (un espediente impiegato anche da film come Ancora Un Giorno o La Strada Dei Samouni di Stefano Savona), che restituiscono immediatamente non solo il senso della tragedia, ma anche l’urgenza e l’autenticità della storia narrata, che alterna i contorni apparentemente eufemistici del disegno ai fatti inequivocabili di un racconto documentario.

Accanto alla voluta ricerca di distacco e attenuazione emotiva data dal cartone animato, la scelta di usare più linguaggi visivi di Flee risponde anche a un’altra esigenza espressiva e simbolica. Perché la mancanza di una forma univoca allude alla mancanza di forma della vita stessa di Amin, un individuo che ha vissuto gran parte della sua esistenza nell’incertezza del senza patria e senza identità (con l’ulteriore interrogativo, nel suo caso, relativo pure alla sua sessualità).

Quando Jonas gli chiede di definire il concetto di “casa”, Amin risponde che “casa è il luogo in cui sei al sicuro, nel quale puoi stare senza essere obbligato a trasferirti. È un luogo non temporaneo”. Tutta la prima parte della sua vita, invece, è stata segnata dalla temporaneità e dalla rottura dei legami familiari. Partendo dalla scomparsa del padre, di cui non s’è saputo più nulla, e arrivando all’odissea dei complicati trasferimenti clandestini da un paese all’altro che, nell’impossibilità di trovare abbastanza soldi per restare tutti insieme, sono quasi sempre effettuati individualmente, rompendo legami di sangue e disseminando fratelli, sorelle, madri, lungo lo scacchiere dell’Europa occidentale.

Infatti l’Amin adolescente giungerà in Danimarca da solo, obbligato a dichiararsi orfano, mentendo, per essere certo di poter restare lì. E l’orfanità resta il dato identitario strutturale, la ferita profonda ancora da rimarginare dopo decenni, persino quando sarà passata la paura materiale che possa giungere un poliziotto russo a ricattarti e resterà però quella emotiva di chi non può fare affidamento sulla certezza del proprio nome e persino della propria storia. Perché la verità, prudentemente nascosta sotto una coltre di bugie necessarie, corre il rischio quasi di dissolversi – quando Amin riprende i diari scritti da ragazzino in lingua Dari, riesce a malapena a leggerli, come se l’autore fosse qualcun altro.

Difficile prevedere se Flee riuscirà a vincere almeno uno degli Oscar cui è candidato, cui vanno aggiunte anche due nomination, per film animato e documentario, anche ai Bafta che saranno assegnati domenica 13 marzo. Sicuramente è un esempio, con la sua emozione rispettosa e trattenuta, ma nondimeno coinvolgente, della efficacia espressiva di forme narrative ibride e senza confini. Che idealmente rimandano ad altri confini necessariamente da abbattere.