La cerimonia degli Oscar 2021 s’avvicina, manca meno di un mese al fatidico 25 aprile di quella che si preannuncia come la più singolare edizione di sempre del premio. Impedendo l’uscita dei film in sala, l’emergenza pandemica ha rimescolato un po’ le carte, perché è mancato il supporto del dato del botteghino ad aiutare a stabilire le gerarchie tra i favoriti, cosa che ha consentito anche a film non esattamente mainstream di ottenere uno spazio rilevante tra le candidature.
Non mancano, tra i titoli più accreditati, film e nomi quali Mank di David Fincher (10 nomination) o Il Processo Ai Chicago 7 di Aaron Sorkin (6) che, prodotti da Netflix, corrispondono precisamente alla ricetta – confezione di “qualità”, temi forti riconoscibili, prove d’attore memorabili – che di solito prelude alla statuetta. Accanto a questi però, sono emerse anche opere con un’ispirazione da cinema indipendente, che aprono squarci su di un’America minoritaria, focalizzate su vicende quotidiane di gente comune, con uno stile a metà tra finzione e documentario e un ritmo antispettacolare.
Il vero favorito degli Oscar 2021 infatti è Nomadland di Chloé Zhao, storia di marginali spazzati via dalla crisi ed esclusi dal sogno americano, che dopo il Leone D’Oro a Venezia ha visto crescere il suo credito tra gli addetti ai lavori vincendo moltissimi premi, sebbene il pubblico non l’abbia praticamente ancora visto – in Italia è annunciato per il 30 aprile in digitale su Star di Disney+ e, se possibile, in sala.
Invece è disponibile da mesi su Prime di Amazon, che lo distribuisce, un altro film che s’è ritagliato a sorpresa un ruolo importante nella corsa alle statuette, Sound Of Metal dell’esordiente Darius Marder. Ben sei le candidature ottenute, tutte importanti, dal miglior film alle due per il protagonista maschile, l’attore anglo-pakistano Riz Ahmed (The Night Of) e il non protagonista Paul Raci, più sceneggiatura originale, montaggio e sonoro (premio per il quale è favoritissimo).
La storia, ricavata da un soggetto di Derek Cianfrance, anche produttore esecutivo, vede al centro Ruben (Ahmed), batterista heavy metal che gira l’America su di un camper da un concerto all’altro, insieme alla compagna Lou (Olivia Cooke), altra metà del duo The backgammon. È una vita raminga e precaria: ma è la vita che si sono scelti, e in cui sembrano aver trovato un equilibrio che li salva dagli aspetti più autodistruttivi di entrambi – Ruben è un ex tossicodipendente con tatuata in petto la frase “please kill me”.
Improvvisamente Ruben perde l’udito. Nel timore che possa ricadere negli antichi vizi, Lou lo indirizza verso un centro di aiuto per persone sorde affette da dipendenze, diretto dall’ex alcolista e reduce del Vietnam Joe (Raci). Lou torna momentaneamente dalla famiglia. Ruben, demoralizzato e frastornato dalla sua nuova esistenza immersa nel silenzio, cerca di adattarsi, imparando la lingua dei segni in una scuola in cui è l’unico adulto, e trovando a poco a poco un ruolo all’interno della comunità di recupero. Sempre però mantenendo una speranza legata a una possibile e costosa operazione che, così spera, potrà restituirgli l’udito e la vita accanto a Lou.
Sound Of Metal racconta una vicenda, se vogliamo, di caduta e riscatto tipica del cinema americano. Quella di Ruben è la parabola di un giovane uomo che gli improvvisi accadimenti costringono a guardarsi a fondo, senza rifugiarsi più in un attivismo inconcludente. Il silenzio in cui è piombato, che elimina qualunque distrazione esterna, lo obbliga quasi automaticamente a un ripiegamento interiore e a una diversa percezione della realtà.
Infatti il sonoro di Sound Of Metal esaspera la dicotomia interno/esterno, saltando continuamente dall’audio ambientale a quello in soggettiva di Ruben, e quindi privo di suoni. Il che consente di immergere lo spettatore nel dramma del protagonista, permettendogli di comprendere bene la natura di una condizione diversa, e non per questo univocamente tragica. L’interiorità è anche la dimensione verso cui Joe spinge Ruben, imponendogli un singolare esercizio quasi monacale, chiudersi in una stanzetta dove meditare e scrivere.
La cifra di Sound Of Metal è tutta nella rarefazione stilistica attraverso cui il percorso di rinascita di Ruben è costruito. Una narrazione senza picchi drammaturgici, che attraverso riprese di sapore documentaristico e un montaggio compassato restituisce i momenti sparsi di una vita in ricostruzione. Anche la figura di Joe non ha nulla del mentore esaltante che distribuisce pillole di saggezza, è anzi ispido e quasi imperscrutabile nelle sue indicazioni prive di spiegazioni. E Riz Ahmed in un’interpretazione tutta introiettata, si accorda sulla medesima economia espressiva, cercando di definire un personaggio realistico più che proverbiale, nemmeno esattamente simpatico – il che impedisce l’immedesimazione empatica dello spettatore.
Nel suo insistito minimalismo Sound Of Metal mostra anche le marche (e i vezzi) del cinema indipendente da Sundance che abbiamo visto fin troppo negli ultimi anni, e in tal senso non riesce a raggiungere una dimensione autenticamente originale – e in fondo, pur mascherato per quanto possibile, un arco drammaturgico il film lo propone, scandito dal sommesso ma percepibile percorso di cambiamento e conquista di un nuovo sé del protagonista. È probabile che a decretare il favore dei giurati dell’Academy un ruolo l’abbia giocato il tema “serio” legato alla disabilità. Che però è affrontato con pudicizia e rispetto, senza fanfare. Ciò che costituisce la maggiore qualità del film.