Apollo 10 E Mezzo (Apollo 10½: A Space Age Childhood) è un’indifesa, tenerissima cavalcata negli anni dell’infanzia, che mostra spudoratamente la sua vena nostalgica. Richard Linklater è un regista il cui cinema ruota da sempre intorno al tema dello scorrere del tempo e delle conseguenze che ciò comporta sui suoi personaggi. Il mutare dei sentimenti col passare degli anni della trilogia Before. L’esperimento di Boyhood, girato in un decennio per filmare il tempo nel suo scolpire cambiamenti non solo emotivi ma letteralmente fisici sul corpo degli attori prima che dei personaggi. O Tutti Vogliono Qualcosa, agrodolce fotografia degli anni Ottanta coi sogni, speranze, fragilità di un gruppo di studenti universitari con ambizioni sportive.
Stavolta, ricorrendo a una tecnica di animazione simile al rotoscope impiegato per Waking Life e A Scanner Darkly, Linklater, che è nato a Houston nel 1960, confeziona un racconto smaccatamente (auto)biografico, tornando alla sua città natale per ripercorrere nel 1969 la vita di Stanley e della sua grande famiglia – padre, madre e sei fratelli – nei mesi dell’impresa dell’Apollo 11, quando per la prima volta nella storia dell’umanità una navicella spaziale toccò il suolo della Luna.
Anche il padre di Stanley lavora alla Nasa, sebbene con un noioso ruolo da burocrate, con grande rammarico del figlio che sognerebbe un genitore astronauta volitivo e avventuroso. Sarà però proprio Stanley a trasformarsi in un viaggiatore delle stelle. Il ragazzino viene assoldato in gran segreto dalla Nasa la quale, per un errore di progettazione, ha costruito una navicella spaziale troppo piccola per un adulto. Allora Stan – nemmeno i genitori lo sanno – segue il programma di addestramento e viene spedito sulla Luna con l’Apollo 10 E Mezzo, mesi prima del viaggio in mondovisione del luglio del 1969 di Neil Armostrong e Buzz Aldrin. Il primo uomo sulla Luna è stato un bambino: e nessuno lo saprà mai.
Eppure, il vero racconto fantascientifico di Apollo 10 E Mezzo è quello che riguarda la vita di tutti i giorni. Infatti quando ci sarà la missione dell’Apollo 11, mentre tutto il mondo sarà incollato alla tv che trasmette in diretta l’impresa non credendo ai propri occhi, quelli di Stanley reggeranno a stento, e lui si addormenterà sul divano sulle ginocchia della madre. Un po’ perché, ma non può dirlo, lui quell’esperienza l’ha già vissuta in prima persona, e perciò non gli sembra più particolarmente eccitante. Un po’ perché, in realtà, i suoi occhi sono già talmente pieni di avventure da non aver bisogno d’altro.
E si tratta delle avventure quotidiane legate alla bellezza insita in quel tempo e in quel luogo, l’America della fine degli anni Sessanta come poteva viverla una famiglia qualunque della media borghesia statunitense dell’epoca. “Lasciate che vi racconti com’era la vita allora. Erano il luogo e il momento migliori per essere un ragazzino”, dice la voice over del narratore adulto Stanley (in originale la voce è di Jack Black), che sin dal primo momento del film ci accompagna in una cavalcata interminabile, che fluisce come un affettuoso e sentito diario d’epoca, con le sue pagine vivissime, per nulla ingiallite.
Come tanti altri maestri del cinema contemporaneo, anche Linklater volge all’indietro lo sguardo, dopo il Tarantino di C’Era Una Volta A… Hollywood, la malinconica enciclopedia del passato di The French Dispatch di Wes Anderson, gli anni Settanta a perdifiato di Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, o gli Ottanta dall’altro lato dell’oceano ritrovati da Paolo Sorrentino in È Stata la Mano Di Dio, facendo i conti con traumi terribili ma anche minute bellezze. Sempre più, nella generazione degli autori che gravita tra i cinquanta e i sessant’anni affiora il bisogno di guardare la realtà attraverso lo specchietto retrovisore. Necessità di bilanci, forse. O chissà, anche di accucciarsi in una dimensione più calda e accogliente dello sgomento e indecifrabile presente, che nonostante o forse proprio a causa della sua velocità mutaforme, sembra aver perduto il gusto del futuro, la capacità di guardare con fiducia ai tempi prossimi – lo ha spiegato in maniera definitiva Simon Reynolds in un libro diventato un classico, Retromania.
Quelli, dice Stanley, erano anni gravidi di avvenire: “Era come essere dove la fantascienza stava prendendo vita. L’ottimistico futuro tecnologico era il presente, e noi eravamo al centro assoluto di tutto ciò che era nuovo e migliore”. Il limite di questo film comunque coinvolgente, semmai, è nel fatto che lo sguardo della memoria si fissa su qualunque dettaglio depositandovi sopra una sensazione nostalgica uniforme, che non fa distinzioni e trova tutto inevitabilmente incantevole. Si può passare dalle descrizioni divertite su come imbrogliare giocando a flipper alle dinamiche pedagogiche coercitive di una scuola fondata sulle punizioni corporali, dalla guerra del Vietnam al triplo spettacolo al cinema a far scorpacciate di b movies, show televisivi e assassinio di JFK, conformismo e hippie.
Apollo 10 E Mezzo è un’apologia nostalgica delle piccole cose di una volta. La distanza retrospettiva del punto di vista cancella qualunque tensione o conflitto. Così resta soltanto il desiderio di riafferrare illusoriamente le esperienze irripetibili di quando si era bambini: “Questa fu l’ultima fase dell’infanzia – ricorda Stanley – in cui sperimentai quel particolare benessere dell’addormentarsi in macchina. Potevi scivolare nel sonno sapendo che sarebbe andato tutto bene e che di mattina ti saresti risvegliato nel tuo letto”.
Il punto è che questo fondale garbato e sorridente disposto da Linklater è sempre sul punto di trasformarsi in una melassa vischiosa, esageratamente carezzevole, ingannevole, confezionata per rassicurarci. E infatti, nonostante qualche diversità ci sia tra i componenti della famiglia di Stanley, non si manifesta mai alcun dissapore. Le discussioni al massimo vertono sulla scelta del canale tv da guardare.
Anche se poi la madre a un certo punto dice: “Sai come funziona la memoria, anche se dormiva, un giorno crederà di aver visto tutto”. Linklater è forse consapevole della stoffa di cui sono fatte le sue memorie, probabilmente fasulle, artificiali come l’erba sintetica dell’Astrodome stadium di Houston. Che a lui però, proprio perché sintetica, sembrava bellissima.