Macbeth, Joel Coen firma un film di formalismo esasperato ed affascinante, tra teatro e cinema

Su Apple TV+ dal 14 gennaio c’è la versione del capolavoro di Shakespeare, con Denzel Washington e Frances McDormand. Joel realizza, senza il fratello Ethan, una versione fedele alla tragedia, che mostra in filigrana i paradossi del cinema dei Coen

Macbeth

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Già la prima sequenza del Macbeth (The Tragedy Of Macbeth, 2021) diretto da Joel Coen, primo film della sua carriera realizzato senza il fratello Ethan (il quale, ironia della sorte, ha detto di voler smettere con il cinema per dedicarsi al teatro), ci racconta del preziosismo visivo di un’opera che pare scolpita più che semplicemente filmata.

È una scena in cui si vedono, prima indistinguibili in una densa bruma nebbiosa, poi più chiare, le sagome di alcuni minacciosi corvi che volteggiano in circolo. L’inquadratura pare indirizzarsi dal basso verso l’alto, e con lei lo sguardo dello spettatore, fino al momento in cui, dopo un lunghissimo minuto, ci rendiamo conto che invece è esattamente l’opposto, ossia che stiamo osservando la scena dall’alto verso il basso, da una prospettiva che potrebbe essere forse quella dei volatili, di un Dio indifferente alla sorte degli uomini o del destino stesso (è la stessa domanda che viene da porsi guardando Gli Uccelli di Hitchcock, in cui accade qualcosa di simile).

L’alto e il basso si mescolano e confondono, secondo una logica in cui è la contraddizione a definire le linee espressive e la temperatura visiva di un film che non a caso opta per la nettezza di un purissimo bianco e nero di forti contrasti, con la preziosa fotografia di Bruno Delbonnel. Una scelta quest’ultima che ottempera al rispetto filologico che si deve tanto a Shakespeare quanto al cinema classico degli Orson Welles (Macbeth, 1948) e degli Akira Kurosawa (Il Trono Di Sangue, 1957) che la tragedia per eccellenza del Bardo hanno messo in scena prima di Joel Coen. E che, inoltre, è tematicamente coerente con una storia in cui gli opposti si specchiano l’uno nell’altro, scambiandosi continuamente e ingannevolmente di posto.

Che è quel che recitano le parole del Macbeth, che Joel Coen, pur scorciando qua e là il testo, segue fedelmente riproducendo l’intricata, ricchissima parola shakespeariana – “quanto a retorica, Shakespeare non ha eguali; non esiste panoplia di metafore più stupefacente”, ha scritto Harold Bloom ne Il Canone Occidentale. “Un giorno così brutto e così bello, ad un tempo, non l’ho mai visto”, esordisce Macbeth (interpretato da un Denzel Washington in cui brama di potere e rassegnazione impotente vanno a braccetto), prima ancora di incontrare le streghe che prevedendogli il futuro innescheranno la furia cieca della sua ambizione (e la strega dalla fisicità contorta e patibolare di Kathryn Hunter non si dimentica). Oppure il “prendete l’apparenza del fiore innocente, ma siate il serpe che sta sotto”, l’istruzione maligna che Lady Macbeth (Frances McDormand) dà al marito, ricordando come questa sia anche una tragedia sulla maschera e la dissimulazione, su volti e sguardi che significano esattamente il contrario di ciò che fingono di intendere.

E quando sempre Lady Macbeth gli chiede, pungolandolo, “Hai dunque paura di essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che tu sei nel desiderio?” sottolinea un’altra linea oppositiva che attraversa un racconto insieme di corpi e fantasmi, di sanità e repentina follia, delle infinite luci e ombre dell’esistenza che nella calibrata e stilisticamente curatissima messinscena di Joel Coen, incastrata dentro un formato in 4:3 da cinema dei padri, trova la sua forma ideale.

La raffinata cura dell’impaginazione visiva del Macbeth diretto da Joel Coen

È anche un film tra teatro e cinema questo Macbeth, girato quasi unicamente in teatro di posa, così da restituire l’ambiguità di uno spazio volutamente astratto, in cui gli interni quasi completamente sgombri fatti di pochissimi elementi, tagli di luce e prospettive esasperate rimandano tanto a un palcoscenico quanto a un film espressionista, consegnando allo spettatore un’esperienza che pare provenire da una dimensione parallela, volutamente inattuale nella ricerca di un grande stile da cinema d’autore d’altri tempi, inseguendo un minimalismo depurato che nella sua ostinazione finisce per coincidere con il manierismo (che costituisce una cifra essenziale del cinema dei fratelli Coen, si pensi a L’Uomo Che Non C’Era, anch’esso in bianco e nero).

E arriviamo appunto ai Coen, perché la storia del Macbeth – certo in toni di fosca tragedia e non con quel gusto del paradosso da dispositivo postmodernista tante volte frequentato dai due fratelli – si combina coerentemente con il loro mondo poetico. Il quale è pieno di vicende che hanno come tema il fallimento, l’inutilità di questo affaticarsi intorno ad ambizioni il cui unico effetto è quello di produrre un dolore insensato e cocenti disillusioni, rivelando la nostra irredimibile piccolezza di esseri umani. Per cui quando Macbeth trae le sue celebri conclusioni – “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un’idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla” – ci pare di veder scorrere tutto il loro cinema migliore, distillato in una sintesi folgorante e senza eguali.

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