Aver scritto riguardo alla direzione d’orchestra al Festival di Sanremo di Francesca Michielin, fatto accompagnata da grande enfasi sui media e dagli addetti ai lavori, tutti a fare complimenti, ovviamente, figuriamoci se esiste un briciolo di dissenso, mi ha indotto a fare un ragionamento, che ovviamente con la vicenda di Francesca Michielin che dirige l’orchestra a Sanremo ha sempre meno a che fare.
Faccio solo una piccola, si fa per dire, premessa, poi passo al cuore.
I tanti che si sono sperticati a difendere la cosa, ovviamente sminuendone la portata, il che è quantomeno buffo, si enfatizza qualcosa che poi si cerca di far passare come poco più che folkloristica, che male c’è se uno che non ha competenze fa qualcosa per cui in fondo non servono competenze, questo il punto, davvero “roba da matti”, hanno sottolineato come dirigere l’orchestra a Sanremo sia poco più che un proforma, qualcosa che saprebbe fare chiunque, tanto c’è il click, che sarebbe il metronomo in cuffia per i musicisti, non costretti a andare a tempo di loro, tanto ci sono le sequenze, tanto sono solo canzonette di tre minuti, non un’opera di Wagner alla Scala.
Tutto vero, ma se fosse una cosa inutile e irrilevante, converrete, e probabilmente lo è, farla passare per qualcosa di meritevole di attenzione sarebbe quantomeno surreale, come fare comunicati stampa sul fatto che uno ha vinto una partita di briscola a casa, coi figli, ma parlandone come se fosse stato campione olimpionico di qualcosa.
Dirigere l’orchestra a Sanremo è un proforma, specie se lo si affronta come tale, siamo d’accordo. Sanremo è un programma televisivo, fanculo la musica, questo il sottotesto. Solo che lo si fa confrontandoci con gente che, per stare lì, i famosi orchestrali, quelli che fino all’anno scorso votavano i cantanti in gara, per altro, quelli che hanno fatto esaltare in tanti quando, ai tempi del trio con Puoi e il principe di Savoia, l’altro non mi ricordo chi fosse, hanno spodestato Malika Ayane dalla finalissima, loro lì a lanciare in aria gli spartiti in segno di protesta, gli spartiti, bada bene, non i coriandoli, gente che per stare lì ha studiato, a lungo, ha superato concorsi, ha conseguito titoli, si è sudato un ruolo prestigioso, al punto da chiamarsi orchestra, non band, non gruppo di accompagnamento, non supporto musicale, orchestra. Poi è chiaro, molti dei direttori d’orchestra non sono veri direttori d’orchestra, magari non hanno neanche studiato al Conservatorio, pochissimi, immagino, sono i producer dei brani in gara, gli arrangiatori. In molti, tra gli addetti ai lavori, lo hanno detto, il ruolo del direttore d’orchestra, a Sanremo, è quello di chi controlla che l’arrangiamento suoni bene, sempre che il fonico di sala sia d’accordo, e in fondo potrebbe anche non esserci. Le partiture, perché partiture ci sono, eccome, le può aver redatte un esterno, sottopagato per questo.
Spesso i producer lavorano in studio con le macchine, e neanche conoscono la musica scritta, passano file che vengono decifrati e scritti. Non è il caso della canzone di Emma, scritta da un maestro come Dario Faini, in arte Dardust, e se dico maestro non è per fare complimenti a caso, ma perché Dario Faini ha fatto il Conservatorio, è un maestro, in effetti, tutto e lo ha anche finito.
Qui siamo semplicemente di fronte a una mera faccenda di marketing, la medesima che ci ha per anni spacciato la medesima cantante per una polistrumentista, poco conta che non sappia suonare bene niente e che in effetti al conservatorio, dopo due tentativi andati a male sia passata a Canto jazz, appunto, lei è quella che sa suonare e ora sa anche dirigere un’orchestra. In barba alle competenze reali. E in barba ai titoli conseguiti, nel suo caso non conseguiti. Quindi ci troviamo di fronte a un paradosso wellsiano, per cui la si esalta, tutti i miei colleghi, i cosiddetti amici a quattro zampe, io li chiamo così, a enfatizzare la cosa, ma se poi fai notar loro il paradosso stesso, eccoli a dire che è una sciocchezza, dirigere l’orchestra è una questione di iconicità, mica realmente attinente alla musica. Che è come dire che uno diventa campione del mondo di calcio, vai di caroselli per le strade, di titoli a sei colonne, orgoglio patrio, popopopopopopò, ma mica è una vittoria vera, non erano proprio i mondiali, era per scherzare.
Io sono un cretino, ne parlavo giorni fa, e me la prendo per faccende che non meriterebbero la mia attenzione e che comunque non si possono realmente discutere, perché in genere l’interlocutore si ferma alle prime due parole di una frase, e io scrivo frasi lunghe e contorte, e ne scrivo anche parecchie, troppe, ma questa cosa fatico a farmela andare giù. Perché sono anarchico, e in quanto anarchico sono dell’idea che se decidi di confrontarti con le regole che qualcuno ha stabilito, perché quel qualcuno ha i titoli per stabilirlo, le devi rispettare, se no vai da un’altra parte e ti fai le tue regole nel tuo posto. Della serie, non puoi pretendere di usare le regole del basket mentre giochi a baseball, questo il punto.
Ma mi spiego meglio.
Ho lasciato l’università, tesi finita, a un esame dalla fine. Storia vecchia, questa, Storia Moderna, la laurea abbandonata all’altare.
Per altro l’esame che non ho mai dato è lingua e letteratura inglese, il mio primo lavoro è stato tradurre libri dall’inglese per Mondadori, succede.
Sto raccontando spesso le stesse storie, dirà qualcuno, credo sia frutto della pandemia, mi sto rincoglionendo, abbiate pietà di me, e comunque ha un senso, portate pazienza.
Dicevo, ho lasciato l’università a un passo dalla fine. Non perché non abbia superato l’esame, ma perché avevo iniziato a lavorare e, forse stupidamente, ho pensato che continuare a studiare non mi servisse. Oggi potrei dire che, siccome ho dato praticamente tutti gli esami e anche redatto la tesi posso ambire a insegnare in una scuola riconosciuta come tale, pubblica o privata? Posso dire che siccome ho poi pubblicato parecchi libri è come se mi fossi laureato? Posso dire che ho appreso sul campo assai più di tanti laureati e che in fondo insegnare non è mica così complicato, lo fanno certi deficienti? Posso, in pratica, dire che il nozionismo e il famoso pezzo di carta non fanno differenza e quindi pretendere un titolo che nei fatti non ho?
Ecco, siccome la questione è questa, i titoli e un sistema che in teoria funziona per titoli, io non ambisco a essere quello che non sono, un laureato.
Sono altro, e mi sta più che bene così, non millanto ciò che non sono, e non mi aspetto riconoscimenti o ruoli che per quello che sono, stando alle regole del basket, posso avere.
Penso di avere competenze e conoscenze, certo, il talento lo lascio fuori dal discorso, non è di questo che si dibatte, competenze e conoscenze che magari tanti laureati non hanno, lo confesso, ma non sono laureato e qualcuno con molte meno competenze e conoscenze di me con la laurea può comunque fare cose che io non posso fare, lo so e neanche ci provo, non mi interessa provarci. Funziona così, se voglio giocare a basket gioco con le regole del basket, nello specifico se volessi fare qualche lavoro che preveda la laurea mi metterei a dare l’ultimo esame e discutere la tesi, amen.
A tutti quelli che sviliscono gli studi, però, auguro metaforicamente di avere sempre a che fare con gente che ricopre ruoli specialistici non per aver studiato e fatto poi le debite esperienze, ma per nome, simpatia, uffici stampa compiacenti e via discorrendo, gente magari anche capace, intendiamoci, ma che non sta lì perché ha studiato e lavorato per dimostrare di esserlo, perché sembra che per alcuni provare a fare le cose seguendo le regole, e quindi seguendo percorsi anche insensati, ma stabiliti a monte, sia quasi qualcosa di irrazionale, salvo poi inneggiare a chi quel percorso ha fatto, ripeto, roba da matti.
Il punto, però, almeno dal mio spettro ottico, non è tanto se Francesca Michielin sappia o meno dirigere un’orchestra che in realtà potrebbe suonare, su questo posso essere d’accordo, anche con un cartonato di Vessicchio davanti, ovvio che lo sa fare, è credo almeno un gradino sopra detto cartonato, né se lei debba o non debba fregiarsi di quel titolo di direttore d’orchestra, perché almeno a Sanremo così si chiama chi sta sul podio al posto del cartonato di Vessicchio, quindi in quel mondo immaginario lì certo che ci si può chiamare, del resto sui social, penso a Facebook, chiamiamo i contatti “amici”, andando a chiamare così anche sconosciuti o, peggio, gente che ci sta pure un po’ sul culo, figuriamoci, la lingua è lingua, il punto è che la notizia è stata data con furba enfasi dallo staff di Francesca Michielin e di Emma, ricordiamo en passant che la sua manager è quella Marta Donà già manager di Marco Mengoni, Alessandro Cattelan e, fino alla vittoria di Eurovision, anche dei Maneskin, non esattamente una di passaggio, e che lei è artista in casa Sony, anche lì, non una che si autoproduce, ma la notizia è stata anche ripresa con passiva sottomissione psicologica da tutti i media, specie quelli di settore, tutti a riportare la medesima enfasi, come a non sapere che è un ruolo fittizio, appunto, da cartonato di Vessicchio e che quando qualcuno ha fatto velatamente notare la cosa, io tra i pochi, detti media ma soprattutto alcuni discografici si sono affrettati a sminuire la cosa, come a dire, “e che sarà mai, è Sanremo”, finendo per dimostrarsi davvero semplici ingranaggi di una macchina, più che gente pensante, ce ne ricorderemo quando verranno sostituiti a breve da ragazzini che sanno usare Tik Tok meglio di loro, come già sta del resto avvenendo. Andando anche oltre, perché in fondo star qui a sottolineare che discografici e giornalisti musicali fossero già prima della pandemia moribondi e che oggi siano ben oltre la soglia della morte, metaforica, mentale, la luce bianca che avvolge tutto, quella roba lì, mi interessa davvero poco, il punto è che io ho commesso l’errore capitale di andare a dichiarare questo mio disappunto nei loro confronti, di discografici e giornalisti, sui social, citando il fatto ma concentrando lo sguardo sulla loro enfasi, non certo sul fatto in sé, tornando per qualche ora a muovermi tra polemiche di varia natura, cosa che non mi succedeva da tempo ormai immemore. Se infatti ho ripreso a scrivere di musica, ormai quasi otto anni fa, dopo una lunga pausa, animando la scena proprio con infiniti catfight in rete e sui social, polemiche su polemiche con fan, artisti e colleghi, passando per quello che forse neanche sono, un polemista, forte sì di una certa capacità oratoria, ma più che altro schifito di trovarmi a avere a che fare con gente che a stento riconosco come miei simili, figuriamoci se scambio per gente con cui vorrei dialogare più o meno veementemente, questi due anni di apatica permanenza lontano da tutti, fisicamente oltre che metaforicamente, mi hanno indotto a sviluppare la consapevolezza che in effetti senza tutto quel circo vivo decisamente meglio. Nel mentre i social sono letteralmente diventati una fogna, luogo di continue battaglie e polarizzazioni, scontri violenti su qualsiasi tema, specie quelli legati alla quotidianità e all’attualità, fatto che mi ha spinto ulteriormente verso una sorta di ascesi misantropa, mai voluto fare quello che vogliono fare tutti gli altri, sin da quando ero un bambino. Concedere una ultima possibilità a tutto questo, per di più per un tema futile come Sanremo, è stato un errore che non avrei dovuto commettere. Vedere che la gente commentava andando immancabilmente fuori tema, a parlare della Michielin e di Sanremo invece che dei discografici e i giornalisti cui avevo dedicato le mie poche parole, accusandomi ovviamente di qualsiasi cosa, dall’essere un rosicone (qualcuno è andato a ripescare Alice Paba, da me endorsata ormai anni fa a Sanremo, strano non abbiano citato le Bikinirama, a questo punto), di essere un boomer, di essere un misogino, sì, io, un misogino, per di più parlando di musica, Dio santo, di essere un ingenuo sognatore, di ogni cosa, ripeto, mi ha immalinconito, letteralmente e letterariamente, una coltre di malinconia pesante, di peltro, a ricoprirmi l’anima. Ho sbagliato, e avere a che fare con i fan della Michielin, due, per la cronaca, tanti ne esistono, ha se possibile reso il tutto ancora più malinconico, come il deja vu di un passato affatto rimpianto, eccomi ragazzino alle medie, i brufoli, i vestiti non alla moda, l’incapacità di capire chi io fossi nel mondo e dentro il mio corpo. Come dire che mai più vorrei avere a che fare con quel passato che la pandemia ha contribuito, certo non intenzionalmente, a portarsi via, certo con tutto il resto.
Il fatto che proprio io, che ho smesso di studiare violoncello e pianoforte senza conseguire un diploma, che ho mollato l’università a un esame dalla fine, che nonostante operi nel settore del giornalismo da quasi venticinque anni ho sempre rifiutato di prendere la tessera da giornalista professionista e anche quella da pubblicista, pur potendo, avendone appunto i titoli, mi sia ritrovato al centro di una polemica che propria dai titoli e dallo stare o meno nell’alveo di certe prassi e di certe regole si muove è quantomeno surreale, come che sempre io, anarchico convinto, outsider per vocazione oltre che per indole, decisamente fuori dai giri giusti, da sempre, mi ritrovi a passare per una specie di conservatore che rivendica il peso del “pezzo di carta” o, peggio, si incaparbisce come un vecchio burocrate a fissare con lo sguardo vitreo i binari come sola strada percorribile, laddove stavo e sto semplicemente cercando di dire che quando si fanno certi discorsi sarebbe bene essere coerenti, anche quando lo sfondo del discorso è quella specie di metaverso fluo, pacchiano e con le proporzioni sbagliate, ovviamente, che risponde al nome di Festival di Sanremo.
Io resto il cretino che prova sempre a alzare un po’ il discorso, dando per scontato che chi ho di fronte abbia davvero voglia di andare oltre le prime due parole di una frase, che voglia, cioè, provare a togliere la buccia e mordere la polpa. Questo l’apatia dello stare praticamente ormai sempre chiuso in casa, la filiera musicale in ostaggio di regole, quelle sì, sempre più ostiche da capire, ostaggio anche della paura di contagiarsi, non da meno, questo l’apatia dello stare in ciabatte sul divano in maniera permanente non l’ha minimamente cambiato, un cretino ero e un cretino resto.
Un cretino che a volte si crede saggio, e se ne sta lì a indicare la luna, consapevole che tutti, o quasi, ancora una volta concentreranno lo sguardo su stocazzo.
condivido ogni parola di quanto scritto da Michele.
Purtroppo oggi la societa’ (in tutti i campi)porta avanti spesso persone che hanno solo apparenza …e’ solo forma e come si dice dalle mie parti (toscana) e “l’è tutto un darselo ad intendere ”
dove andremo? Boh