West Side Story è un film bello e anacronistico, scritto nella lingua morta del musical classico

Il remake di Spielberg del film del 1961 parla di gentrificazione e conflitti di classe. Ma come può lo spettatore di oggi palpitare per una vicenda alla Giulietta e Romeo raccontata con lo stile da musical d’altri tempi? Piacerà solo a cinefili e nostalgici

West Side Story

Photo by Niko Tavernise. © 2021 20th Century Studios


INTERAZIONI: 3

Una delle chiavi d’accesso privilegiate al West Side Story di Steven Spielberg, rifacimento sessant’anni dopo del film premio Oscar del 1961 diretto da Jerome Robbins e Robert Wise (a sua volta tratto dallo spettacolo di Broadway con libretto di Arthur Laurents e del recentemente scomparso Steven Sondheim, musiche di Leonard Bernstein) è quella legata all’unica attrice presente in entrambe le pellicole, la leggendaria Rita Moreno, che consente immediatamente di istituire un confronto tra i due racconti. Allora interpretava il ruolo di Anita, la donna portoricana di Bernardo, il leader della gang degli Sharks. Oggi compare in quello di Valentina, un personaggio creato su misura per lei dallo sceneggiatore Tony Kushner (già accanto a Spielberg per Munich e lo stupendo Lincoln), anziana vedova portoricana che dopo la morte del marito bianco gestisce ancora il negozio di famiglia Doc’s.

Il personaggio di Anita (nella nuova versione Ariana DeBose) canta America, il brano che dà voce al desiderio di integrazione, alla fiducia nella possibilità di realizzare la propria versione del sogno americano, che nonostante tutte le difficoltà e le discriminazioni è lì, a portata di mano anche per un’immigrata. Valentina invece, da memoria storica delle vicissitudini del quartiere dell’Upper West Side in cui si svolge la vicenda – infatti quando vede i ragazzi della gang dei bianchi, i Jets, rammenta loro di averli visti crescere uno a uno – non nutre più aspettative verso il futuro, e canta Somewhere. Un brano che, fino a quando era interpretato nel film originale dai novelli Giulietta e Romeo Tony e Maria, americano di origini polacche lui, portoricana lei, incarnava la speranza, pur flebile, che “da qualche parte” prima o poi il loro contrastato amore potesse manifestarsi liberamente.

Invece Valentina, che pure da assoluta pioniera quell’amore interrazziale l’ha già vissuto, ha però visto l’illusione del cambiamento spezzarsi un giorno dopo l’altro, una guerra di bande dopo l’altra, fino all’ultima tragedia davanti ai suoi occhi in quel momento, l’ennesima morte insensata, l’ennesimo omicidio frutto dell’ignoranza e della paura del diverso che ha spento un’altra giovane vita. E allora quel “da qualche parte”, prima dispiegato a piena voce da due giovani amanti e proiettato verso un altrove che sembra possibile, è diventato il flebile canto spezzato di un’anziana donna, gravido dell’amarezza e dello sgomento di chi ha provato sulla sua pelle che nulla può davvero cambiare, che non esiste un domani per i Tony e le Maria di questa sfortunata porzione di mondo.

Infatti l’Upper West Side li sta chirurgicamente espellendo i Tony e le Maria, i Jets e gli Sharks, gli americani poveri di origine europea e gli immigrati portoricani, attraverso quel processo di gentrificazione che nei primi anni Sessanta avrebbe trasformato quella zona un tempo di case popolari nella sede di lussuosi appartamenti per l’alta borghesia newyorkese. Ed è nel segno di questa dolorosa mutazione che intacca alle fondamenta l’american dream che Spielberg comincia la sua personale rilettura di West Side Story, mostrando nella prima sequenza del film con un vertiginoso movimento di macchina a salire il quartiere sventrato come fosse stato appena bombardato, con le macerie di cui in breve tempo le ruspe faranno piazza pulita per accogliere classi sociali di ben altro lignaggio. E infatti quando tocca al (bellissimo) numero di America, questo non si svolge più sul tetto d’un palazzo, come nel 1961, ma tra le strade del rione, con ballerini e cantanti che intonano il loro canto pieno d’energia coreografica, con però sullo sfondo gli sfrattati che manifestano per i loro diritti calpestati di poveri cristi.

Il numero di America nel West Side Story di Steven Spielberg

In una situazione del genere fa quasi tenerezza, per il suo anacronismo velleitario, la battaglia tra gli Sharks e i Jets – la gang bianca che vediamo uscire letteralmente da sottoterra, come fossero topi di fogna –, i quali credono di scontrarsi per il controllo di un territorio che invece non è mai stato nelle loro disponibilità. Ed è anche per questa ragione che a un certo punto, dopo che la tragedia della guerra tra bande s’è consumata, Spielberg ci mostra all’obitorio i corpi esanimi dei due avversari Bernardo (David Alvarez) e Riff (Mike Faist) nel loro pallore cadaverico, a dimostrazione del fatto che questi due ragazzi – e con loro le comunità che idealmente rappresentano – costituiscono il passato, spazzato via dalla forza motrice dello spirito d’impresa e del capitale che le cose le rimodella per davvero.

L’originalità dell’operazione effettuata da Steven Spielberg sul corpo di West Side Story la si può leggere principalmente su questo piano. Perché onestamente il resto lascia perplessi. La confezione naturalmente è mirabile, visivamente sontuosa (la fotografia è di Janusz Kamiński), con i movimenti di macchina che danzano insieme ai ballerini rianimando la staticità quasi da palcoscenico dei numeri danzanti ripresi frontalmente nel film del 1961.

Però è impossibile non rilevare che non esiste più quella forma di ingenuità spettatoriale che possa far palpitare per l’amore contrastato tra due figurine bidimensionali come Tony e Maria – oltretutto interpretati da due attori, il legnoso Ansel Elgort e la troppo giovane Rachel Zegler, senza alcuna chimica e vibrazione reciproca, incapaci di infondere verità e passione a due personaggi già di loro bidimensionali. E se all’altezza del cinema del 1961 la rappresentazione pur altamente stilizzata della brutalità offerta dalle coreografie di Jerome Robbins possedeva una sua veridicità, una sua rimarchevole forza d’urto, oggi dopo decenni in cui l’immaginario visivo s’è nutrito di una messinscena della violenza sempre più esasperata, le scaramucce tra questi teppistelli sbandati senza alcuna autentica vocazione criminale risultano prive di qualunque credibilità agli occhi di un pubblico smaliziato, che ha visto e vede continuamente di tutto.

Rita Moreno e Steven Spielberg sul set

Il punto è che questo West Side Story fin troppo filologico e fedele all’originale non sembra pensato per gli spettatori contemporanei – qual è mai il target di un film simile? si può immaginare un ragazzo di oggi che vada al cinema per vederlo? ne dubito –, ma pare piuttosto un regalo che Steven Spielberg ha concesso a sé stesso e, indirettamente, a un minoritario pubblico cinefilo innamorato di quella straordinaria arte perduta, almeno nelle forme che il regista di Cincinnati qui insegue, che è il musical classico.

Un genere che s’è ormai estinto da decenni e di cui già il West Side Story di Robbins e Wise era un frutto terminale quasi postumo. Rispetto al film di Spielberg si potrebbero ripetere più o meno le stesse considerazioni fatte all’uscita nel 2016 di un altro musical fuori tempo massimo come La La Land. Solo che quella è un’opera palesemente teorica diretta da un regista trentenne cinefilo, Damien Chazelle, che sa benissimo di star impiegando un dispositivo appartenente a un’altra epoca e cultura, per cui filma ogni sequenza in una perenne oscillazione tra il desiderio di abbandonarsi ingenuamente alla bellezza del racconto e dei numeri di danza e una forma lucida di distacco disilluso che deriva dalla consapevolezza dell’impossibilità di rianimare quel tipo di cinema.

Spielberg, invece, è un uomo di 75 anni che l’originale, amatissimo West Side Story l’ha visto la prima volta da spettatore ragazzino. E oggi da regista – infondendovi quella ingenuità infantile che è una delle doti di questo grande cineasta – cerca di riprodurre l’antica magia, come se bastassero buona volontà e inimitabile perizia tecnica per rimettere in vita il grande stile del musical dei Vincente Minnelli, Stanley Donen e Robbins-Wise. Non sorprende perciò che il film stia ottenendo risultati al botteghino molto al di sotto delle aspettative. Non è perché si tratti di un film scomodo che denuncia la fine del sogno americano. Ma è perché parla in una lingua bellissima ma morta che capiscono solo Spielberg e un pugno di cinefili nostalgici.

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