Mi si è aperto un mondo. Un mondo che già conoscevo, quindi dire “mi si è aperto un mondo” è tecnicamente una menzogna, ma una menzogna detta a scopi narrativi, una forzatura della trama, un artificio letterario, immagino che a questo punto l’idea di ricevere un Premio Tenco alla carriera sia da escludere per sempre, non stiamo comunque troppo a sottilizzare. Diamo per buono, d’ora in poi, che quello che scrivo è tutto vero. Non avete modo di dimostrare il contrario, del resto, se non ex post, quando lo avrete letto, e in caso sarà troppo tardi, perché io lo avrò già scritto, forse addirittura scritto da molto tempo, potrei essere morto, auspico di vecchiaia, quando lo leggerete, potreste non essere neanche nati, mentre lo sto scrivendo, mentre sto scrivendo questa cosa del mondo che mi si è aperto davanti, insomma, ci siamo capiti, fidatevi di quel che scrivo e non rompete troppo i coglioni, la verità è un valore sopravvalutato.
Mi si è aperto un mondo. Mi si è aperto un mondo quando, cazzeggiando per Netflix, ho scoperto che da qualche parte, Netflix, come tutto ciò che si trova in rete, è un pozzo senza fondo, di tesori come di cose inutili, irrilevanti, e come tutti i pozzi senza fondo orientarcisi senza cadere nel vuoto è difficilissimo, quasi impossibile, quindi cazzeggiando per Netflix ho scoperto da qualche parte tutti gli special di Dave Chappelle, considerato uno dei più grandi comedian americani, se non addirittura il più grande. Mi ero già sparato tutti gli show di Ricky Gervais, artista che amo con tutto me stesso, e del quale sposo aprioristicamente qualsiasi scelta, mentre di Chappelle avevo più che altro sentito parlare, visto qualche spezzone di video su Youtune, letto qualche articolo al suo riguardo, quasi sempre concernente la cancel culture, il politicamente corretto e quelle tematiche lì. Ecco, ho sostanzialmente dichiarato, senza nessun tipo di artificio, di aver cercato esplicitamente su Netflix gli special di Dave Chappelle, altro che cazzeggio, e ho anche tra le righe detto che li ho cercati perché ho letto qualche articolo che lo riguardavano, proprio recentemente è finito sotto il mirino, per l’ennesima volta, per certe sue battute considerate, a mio avviso a torto, transfobiche. Volevo farmi un’opinione a riguardo, quando ho cercato gli special non ero ancora dell’idea che le accuse di transfobia che gli erano piovute addosso fossero sciocche e immotivate, e ovviamente ho fatto quello che qualsiasi giornalista dovrebbe fare, e l’ho fatto non perché io sia un giornalista, non lo sono, né perché mi interessi che all’esterno la gente guardi comunque a me come a un giornalista, e a un bravo giornalista, nello specifico, ma perché non conosco altra maniera per conoscere qualcosa, sono cioè andato a vedere coi miei occhi, direttamente alla fonte. Mi sono così sparato tutti gli speciali di Dave Chappelle su Netflix, in inglese e coi sottotitoli, poi sono capitato su un’intervista a Dave Chappelle fatta da David Letterman. Non li David Letterman del David Letterman Late Night Show, ma quello di oggi, che poi è sempre il medesimo David Letterman, ovviamente, come io sono io sia che guardi al me stesso di tanti anni fa che a quello di stamattina, al punto che, se davvero leggeste queste mie parole tra tantissimi anni, quando sarò ormai morto, sarei comunque me stesso, un nome e un cognome lì a dirvelo. Su Netflix, infatti, va di scena un nuovo anomalo show di David Letterman, tre stagioni a partire dal 2018, titolo “Non c’è bisogno di presentazioni- Con David Letterman”. Un ospite a puntata, in teatro, ma nell’edizione del 2020, sotto pandemia, ci saranno pure gite “fuoriporta”, come appunto quella a Dave Chappelle, in Ohio, nella sua Yellow Springs, due poltrone a fare da scenografia e via, chiacchiere in libertà, con David Letterman, la folta barba bianca che si è lasciato crescere da che, nel 2015, è andato in pensione dal suo show notturno, a tirare fuori tesori inestimati dai suoi interlocutori. Qualcosa di molto interessante, e chiunque abbia mai visto una puntata del Late Show di Letterman può tranquillamente farsi un’idea a riguardo. Per intendersi, tutti quelli che si esaltano per Jimmy Fallon, o, pensa te, per Alessandro Cattelan, dovrebbero stendersi a terra tipo in uno di quei battesimi ortodossi che si vedono in certi film, e non alzare più il viso per ore e ore. Ospite della prima puntata, giusto per far capire le forze in campo, Barack Obama, e poi a seguire tanti altri personaggi, non tantissimi, le puntate sono in tutto meno di venti. Me le sono sparate tutte di fila, un po’ perché credo che chi nella vita ha deciso di occuparsi di comunicazione, vai poi a capire comunicazione espressa in che forma, debba sempre continuare a studiare, e chi di meglio di un maestro per poter studiare?, e un po’ perché alcuni degli ospiti, a parte Chappelle penso a Robert Downey J, a Howard Stern, in pratica il più grande uomo di televisione che intervista il più grande uomo della radio, a una gigantesca Kim Kardashian, mi hanno sempre intrigato, vederli bonariamente messi sotto torchio mi è sembrata anche troppa grazia. Il fatto che tra gli ospiti ci fossero anche dei musicisti, ovviamente, è stato un ulteriore incentivo, Jay-Z nella prima serie, Kaney West a aprire la seconda, Lizzo a chiudere la terza.
È proprio della puntata di Lizzo che voglio parlare, ma prima devo iniziare un altro racconto.
Proprio nei giorni in cui mi sparavo a raffica prima gli speciali di Dave Chappelle e poi le tre stagioni del nuovo show di Letterman ho ricevuto una tesi di laurea. Mi capita, a volte, di ricevere tesi di laurea da leggere, perché a volte mi capita di finire citato dentro tesi di laurea, direttamente o per qualche mio libro e articolo che poi finisce nella bibliografia. A volte, neanche troppo raramente, finisco anche nei libri di testo, e questa cosa continua incessantemente a riempirmi di meraviglia, perché non riuscirei mai a prendere troppo sul serio qualcuno che citasse uno come me, sicuramente, e perché in fondo questa faccenda delle tesi di laurea è un nervo scoperto della mia esistenza giovanile. Non mi sono infatti mai laureato. Ci sono andato vicinissimo, il che forse è anche peggio, ma non mi sono mai laureato. Iscritto da studente non frequentante al corso di Storia Moderna dell’Università Alma Mater di Bologna, ho dato ventuno esami su ventidue, lavorando alla tesi in Storia Americana col professor Federico Romero. Ho finito la tesi, perché era un argomento che mi interessava tantissimo, “Il rapporto tra la cultura afro-americana e il movimento hip-hop”, tesi evidentemente fuoriluogo per chi si stava laureando in Storia Moderna, ma tant’è, lasciando per ultimo l’esame di Lingua e letteratura inglese, presso la facoltà di Ligue. Poi però è arrivato il servizio civile, e poi il trasferimento a Milano, il lavoro, la pubblicazione dei libri, insomma, il mio ultimo esame si è sempre più allontanato da me e con lui anche la possibilità di laurearmi. Ho tenuto lezioni presso diverse università, negli anni, dal Politecnico allo Iulm, passando per diverse facoltà umanistiche, ho anche tenuto un corso per la laurea magistrale, ma non mi sono mai laureato. Amen. Sono però finito dentro diverse tesi, una addirittura interamente dedicata a me, in letteratura italiana presso la Sorbona, ai tempi in cui mi vedevo e ero visto come un narratore, l’ultima delle quali mi è arrivata proprio mentre mi stavo sparando non so che stagione dell’ultimo show di David Letterman. Ho ovviamente mollato Netflix, almeno per qualche ora. A scrivere la tesi magistrale, dedicata al tema della musica al femminile, non voglio entrare nel merito, la tesi non è ancora stata discussa e comunque è la sua tesi, non la mia, è una cantautrice di cui ho grandissima stima, e nella tesi si parla molto approfonditamente di tutti quegli argomenti che negli ultimi dieci anni hanno attraversato il mio immaginario e la mia poetica, dalla domanda “il cantautorato femminile è un genere musicale?” alla presenza/assenza del corpo sessualizzato della donna nei testi delle canzoni scritti e interpretati da artiste donne. Del resto, non voglio tornarci su troppo, ho altro da dire, Anatomia Femminile metteva insieme entrambe queste istanze, cantautorato femminile e corpi.
Bene, posso tornare a Non c’è bisogno di presentazioni, di David Letterman. L’ultima puntata della terza stagione ha come protagonista Lizzo, artista urban vincitrice di svariati premi, per citarne qualcuno tre Grammy Awards. Letterman incontra Lizzo nella sua casa, fuori c’è il Covid, fare un programma con il pubblico è evidentemente fuori da ogni possibilità percorribile. L’ora circa di programma scorre che è un piacere. Lizzo è naturalmente molto simpatica, ha una risata squassante che ti induce immediatamente a ridere con lei, ha una fisicità, e la fisicità di Lizzo sarà argomento di parte della puntata, debordante, non si riesce a non guardarla e non provare empatia nei suoi confronti. Ma la fisicità di Lizzo, sarà Letterman ha introdurre il discorso, e Lizzo non se ne tirerà certo fuori scansandolo, è a lungo stata oggetto di bullismo, di insulti, di sfottò. Lizzo è oversize, che probabilmente è il modo sbagliato per descrivere la sua condizione fisica, quello corretto è obesa, ma è una grande performer, che sul palco ha usato la sua fisicità debordante per farne spettacolo. Questa cosa, l’esibire i suoi chili in eccesso, avvolta in body, succinti e ultrasexy costumi di scena, abiti comunque decisamente sopra le righe o per meglio dire fuori dai canoni cui siamo genericamente abituati, almeno applicati alle persone con problemi di sovrappeso, se la seguite su Instagram avrete visto ben più di quanto in genere il social di Zuckerberg permette ai propri utenti, e l’esibirli in maniera orgogliosa, conscia di essere una grande artista e una grande artista anche in virtù del suo corpo, la sua femminilità a sua volta esibita con grande spavalderia, anche in questo caso, la parola giusta è spudoratezza, ha ovviamente indotto una marea di hater da tastiera, di gente che evidentemente vive con più frustrazione il vivere in corpi magari più coincidenti con gli stereotipi vigenti, più ascrivibili ai canoni ufficiali, a ricoprirla di insulti. Ora, ci si potrebbe aspettare che una artista capace di fare filotto ai Grammy Awards, una artista che per di più gioca apertamente con quello che viene genericamente inteso come un difetto, sia abbastanza forte da sopportare un tale carico di insulti, fatto che ovviamente non risponde al vero. I colpi subiti lasciano cicatrici, come è normale che sia, ma a quelle cicatrici lei, Lizzo, ha deciso di rispondere con la positività, e anche con una dose extralusso di ironia. Se infatti quei balletti sexy a suon di chili in eccesso, un culo gigantesco esibito con dovizia di particolari, la scollatura che divide quella che a occhio è almeno una ottava di seno pure, per non dire delle smagliature, dei rotoli e della cellulite, se tutti questi dettagli esibiti sfacciatamente possono essere tranquillamente letti come una, mi si scusi il mesto gioco di parole, grassa risata fatta alla faccia di chi fatica a credere che una come lei possa avere successo, le classifiche dicono il contrario, le sue hit dicono il contrario, un pubblico immenso in giro per il mondo dice il contrario, il modo che Lizzo ha, nello speciale di Letterman lo racconta, e viene anche mostrato attraverso dei filmati tratti dai suoi concerti del periodo pre-Covid19, di infondere positività nel suo pubblico durante i concerti, il mantra collettivo che chiude le sue performance, l’invito a volersi bene e a volere bene a chi ci circonda, tutto appare come sincero, non costruito, parte neanche troppo marginale del suo show provocante e assai divertente. Poi, certo, vedere Lizzo che insegna a Letterman a suonare il flauto traverso, o che gli fa incidere una canzone rap è show nello show, ma il discorso fatto sul corpo, la percezione di sé e di come si viene percepiti all’esterno, è qualcosa che andrebbe mostrato nelle scuole medue, quando i ragazzini e le ragazzine cominciano a fare i conti col proprio corpo che cambia, per dirla alla Pelù, nell’età in cui per altro la stronzaggine viene fuori come le lumache dopo un pomeriggio di pioggia.
Tornando quindi alla tesi di laurea magistrale che parla del cantautorato femminile, una tesi di oltre trecento pagine, lavoro importante, con una tesi, questo dovrebbero fare appunto questi lavoro di fine studi, anche piuttosto politica, direi che mai come oggi sarebbe il caso di ricollocare il corpo al centro dell’attenzione, proprio per non lasciare che la parola resti in bocca solo di chi gli stereotipi al massimo li concepisce, non certo di chi poi ci si trova a fare i conti.
Del resto, spiace dirlo, ma che gli americani su certi argomenti siano decisamente avanti a noi su certi temi, è un dato di fatto. Proprio giorni fa, lo so che sto parlando oggi in maniera inquietante di piattaforme televisive, laddove in genere avrei parlato di piattaforme musicali, ma la pandemia ci ha in qualche modo fatto affiliare alla setta di chi segue indefessamente serie tv su serie tv, e comunque quello che Netflix, Amazon Prime e affini fanno a livello produttivo per cinema e televisione Spotify neanche ci pensa a farlo in musica, con i risultati che sono sotto gli orecchi di tutti noi, giorni fa, dicevo, con mia moglie abbiamo visto il secondo episodio della diciottesima stagione di Grey’s Anatomy, su Disney+, evidentemente a Sky non bastava aver perso il calcio, con la solita attenzione che quella serie richiede, ma anche con la stanchezza di una giornata intensa di lavoro. A un certo punto Hunt e la Altman, se non sapete di chi io stia parlando smettete di leggermi, non mi meritate, portano i figli al nido del Grey’s Sloane, la figlia vestita come Elsa di Frozen. Un dettaglio apparentemente irrilevante, non fosse che in Grey’s Anatomy niente è irrilevante, e che a un certo punto si avvicina alla bambina un signore, fatto che induce la Altaman a mettersi in mezzo, con fare protettivo, finché questo non dice che era curioso di sapere dove avessero trovato quel costume, perché erano giorni che lo stava cercando per sua figlia. Insomma, un passaggio che potrebbe sembrare interlocutorio, tra una scena clou e l’altra. Peccato che, verso il finale, verrà fuori che no, quello non è la figlia di Hunt e la Altman, anzi, del solo Hunt, la loro è una storia complicata, ma è il figlio di Hunt, Lio, di circa tre anni e vestito da Elsa di Frozen, con tanto di lunghi boccoli biondi. La Altman spiega di aver avuto paura che il tipo si fosse avvicinato per prenderlo in giro, al punto da chiedersi se in futuro non avrebbe avuto problemi a essere se stesso, e quindi in qualche modo chiedendosi e chiedendo a Hunt se non fosse il caso di intervenire in qualche modo, “correggendo il tiro”, domande cui ovviamente Hunt risponde con serenità, essere se stessi non potrà mai essere un problema. Una scena che, pensata in una qualsiasi serie italiana, sarebbe stata stucchevole, melensa, piena di paternalismo, anche magari nel voler essere inclusiva e aperta. Ripeto, abbiamo un gran bisogno di voci che ci raccontino il corpo, ci raccontino un punto di vista solitamente invisibile, quello delle donne, abbiamo grandi stereotipi da abbattere a colpi di culo e di smagliature.
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