Storie di inquisitori e di streghe, sempre loro, Vanina Vincent e la sua Dime Devi

Mai come oggi tenersi a debita distanza dalla macchina sembra la sola via per poter percorrere una strada che non sia quella scontata del mainstream


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Ci pensavo giorni fa, non saprei neanche dire perché. Anzi, no, so esattamente perché. Era la giornata internazionale contro la violenza maschile nei confronti delle donne, e un po’ tutti, a modo loro, facevano post sui social a riguardo. Così, scrollando non saprei dire se Facebook o Instagram, questo non è in effetti rilevante, mi è passato sott’occhio un post di Giulia Cavaliere, validissima critica musicale, post che riprendeva una locandina d’annata del Virus, storico centro sociale della Milano anni Settanta/Ottanta, nella quale si vedeva la scritta, naif, “Contro la violenza sessuale”. Suonavano, tra gli altri, i Negazione, band hardcore di Torino, vero e propria eccellenza di questo genere, e non solo volendo circoscrivere la faccenda all’Italia. Leggendo quel nome, Negazione, non ho potuto pensare a Marco Mathieu, che di quella band era il bassista. Io e Marco abbiamo militato insieme qualche anno tra i collaboratori di Tutto Musica, e forse non solo di Tutto Musica, e come con buona parte dei collaboratori di quella storica rivista, ci siamo poi persi di vista, questo quando Luca Valtorta ha lasciato il suo posto di caporeddatore per diventare prima direttore di Musica di Repubblica e poi della sua diretta propagazione che rispondeva al nome di XL. Anni fa, dopo esserci in qualche modo ritrovati sui social, in quel modo distante che fa sì che ci si riincontri da quelle parti anche con chi, di fatto, nella vita non si è più frequentato, anni fa ho saputo che Marco ha avuto un bruttissimo incidente in moto, a Roma, sbattendo la testa e finendo in coma. Una tragedia che è diventata, dopo i primi giorni di speranze, questo l’ho saputo sempre dai social, permanente, lui trasferito a Torino, vicino ai suoi cari, il coma divenuto irreversibile.

Ogni tanto ci penso, a Marco, anche per motivi casuali, come il vedere una vecchia locandina del Virus, postata per tutt’altri motivi. Ogni tanto ci penso, con un moto di tristezza mista a malinconia, tristezza per quello che è stato un destino infausto, malinconia per un passato che non ritornerà più, non che io voglia in alcun modo tornare al passato, intendiamoci, sono piuttosto felice del mio presente e non ambisco in alcun modo a una giovinezza che comunque mi verrebbe negata dalla fisica, ma confesso che rivivrei con piacere alcuni passaggi della mia vita, tanto li considero belli e intensi, troppo poco averli già vissuti e cullarli nei ricordi. Ripensandoci, però, ripensando cioè a quando io e Marco militavamo nella versione valtortiana di Tutto Musica, una versione decisamente innovativa, per certi versi sperimentale, pop e underground che si mischiavano e inseguivano, una rivista tendenzialmente di cassetta che si lanciava in inchieste di taglio sociologico e antropologico, per non dire di quanto si fosse in anticipo sui tempi per quel che riguarda internet, i primi a mettere la discografia in allarme riguardo Napster, il file sharing, la deriva che la musica sarebbe andata a intraprendere, mi è venuto in mente come spesso io e Marco fossimo in qualche modo contrapposti. Un’idea basilare, quella delle due versioni una contro l’altra, che in qualche modo avevo contribuito a creare, mio malgrado. Siccome la mia mission in quel giornale era di scrivere esattamente quel che volevo, senza stare a fare i conti con le idee del direttore, nello specifico la direttrice Patrizia Ricci, spesso mi ritrovavo a stroncare gli artisti che lei piazzava in copertina, creando non di rado situazioni di tensione e imbarazzo. Pensateci, la direttrice concorda con una casa discografica un servizio importante, di copertina, o magari concorda la pubblicazione con la rivista di un cd di un artista, Tutto Musica era uso pubblicare estratti di lavori d’alta classifica, prima di cominciare, proprio sotto la guida di Valtorta, a pubblicare lavori fatti ad hoc da artisti dell’underground, penso a certi lavori dei Verdena o dei Subsonica, per dire, la direttrice, quindi, porta a casa una collaborazione importante e poi arrivo io che stronco l’artista in copertina o un cui cd è in regalo con il giornale. Roba grossa. Roba grossa che però non solo era prevista, era addirittura incentivata, certo non in assenza di un po’ di malizia. Mi spiego, non che io stroncassi tanto per fare clamore, figuriamoci, ero giovane e ero ancora più radicale di quanto non sia ora, e comunque questo mio stroncare, permesso e protetto dal giornale, mi teneva già allora fuori dai viaggi stampa, dai regali, da certi optional cui potevano invece avvantaggiarsi i miei colleghi e tutti gli altri giornalisti, stroncavo chi pensavo andasse stroncato, un po’ come faccio ora, ero esattamente quel che sono ora, un libero battitore, ma è chiaro che affidarmi certe recensioni era come invitarmi a fare male, perché il mio approccio alla critica musicale era ovviamente noto a tutti i miei colleghi, e sapendo chi avevo di fronte era facile capire cosa avrei poi scritto, salvo evidenti sorprese. Quindi spesso mi affidavano la recensione dell’artista di copertina, sperando proprio che facessi qualche casino, e spesso lo facevo, al punto che da una certo momento in poi affiancarono alle mie recensioni delle vere e proprie marchette, atte a tenere buono l’artista in questione e la sua casa discografica, le Recensioni Crash, si chiamavano, un modo furbo e anche un po’ ipocrita di dire che i gusti erano personali, quando è evidente che la critica musicale non è affatto soggettiva, ma passiamo oltre. Per blandire le ire degli artisti si era cominciato a proporre punti di vista forzatamente diversi, non costringendo il mio collega, quasi sempre la stessa persona, a fare marchette laddove io stroncassi, quando piuttosto affidando a uno che aveva indubbi gusti di merda le recensioni da contrapporre alle mie. Siccome questa formula funzionava, e di lì a poco io sarei diventato una delle firme principali del giornale, insieme a Valeria Rusconi, che poi avrebbe lasciato la redazione proprio per seguire Valtorta a Repubblica. Eravamo diventati pure dei personaggi, ben prima dell’arrivo dei social, la nostra faccia in copertina, a un certo punto, noi dentro un servizio a noi dedicato, a lei era toccato uno shit storm, che non si chiamava ancora così, da parte dei fan degli Oasis, a me ne toccava uno al mese, praticamente per ogni recensione fatta, esattamente come succede oggi, la sola differenza che lì il tutto passava per le poste, quindi con tempi lunghissimi. Da lì a passare a presentare punti di vista diversi anche su tematiche più complesse di un disco da recensire il passo è stato breve, così mi sono trovato a controbattere con Marco Mathieu su temi quali le droghe leggere, i tatuaggi e i piercing, non ricordo cos’altro. Io, novanta volte su cento, vestivo i panni del conservatore, è vero che avevo i capelli lunghi e avevo un passato in una band punk di provincia, ma lui era Marco dei Negazione, era pieno di piercing e tatuaggi e comunque la pensava in maniera assai diversa da me. Del resto, credo, vestendo spesso i panni dell’inquisitore, quello che non solo ha un senso della morale piuttosto radicato, ma tende a praticarlo non lesinando punizioni e anche qualche tipo di tortura medievale, ci sta che io fossi Eimerich e lui una specie di ribelle di un film apocalittico, a capo di non so quale gruppo di rivoltosi. Quando poi Valtorta se ne è andato, portandosi via parte della redazione, lasciandomi certo campo aperto, negli ultimi numeri ero davvero una specie di eroe assoluto della situazione, Dio quanto mi sono divertito, questo giochino è venuto meno, nessuno era di fatto in grado di contrapporsi a me, o quantomeno di uscirne con un po’ di ossa intatte, lo dico senza voler star qui a vantarmi, nessun vanto nel superare di una spanna oscuri redattori poi passati a occuparsi di gossip a Star+, il Novella 2000 della Mondadori, voluto fortissimamente da Berlusconi a chiari fini politici e durato il tempo che una scoreggia impiega a dissolversi in una stanza particolarmente areata.

A pensarci però oggi, e oggi è il giorno in cui ci ho pensato e ho deciso di scriverne, la cosa presenta almeno un elemento che non può che indurmi a irrefrenabile ilarità. Se è infatti vero che anche oggi posso dire di essere un moralista duro e puro, come si spiegherebbe altrimenti la serie piuttosto lunga di inchieste contro i malcostumi della discografia, del booking, quelle poi finite dentro la televisione e riprese da altri media, penso al caso Sanremo/Baglioni/Salzano, a quello MN Holding/RAI, ai casi dei concerti con finti sold out, o le mie battaglie serrate contro lo streaming, fatto sulla pelle degli artisti, per non dire, e qui il discorso si fa davvero complicato, a tutte le battaglie fatte contro il maschilismo del mondo della musica, le discriminazioni nei confronti delle donne in discografia e nei Festival, a partire da Sanremo, e le conseguenti mie campagne quali #LaFigaLaPortoIo o i vari Festivalini e Femminile Plurale, ripeto, un moralista fatto e finito, con tanto di tonaca nera, pungolo per torturare gli eretici e crocifisso d’oro a spiccare sul nero dell’abito talare, dall’altra è pur vero che credo di essere anche colui che, tra i miei colleghi, più attenzione ha posto sul corpo della donna dentro la musica, andando a stigmatizzare la dittatura degli stereotipi femminili e invocando un ritorno a una autoconsapevolezza del proprio essere donne, spesso la discriminatorietà dell’ambiente musicale induce le artiste a ritenersi parte del problema, non vittime di una stortura, il tutto surfando sul mansplaining, è chiaro, sono cioè uno che ha scritto articoli, libri, fatto monologhi a teatro, portato un TedX col culo di Nicki Minaj in primo piano in mezzo a astrofisici e scienziati, uno dei massimi divulgatori e promotori di quelle artiste che, proprio per il loro essere fuori dagli schemi che vorrebbero le donne tutte stereotipate e buone in un angolo, possono essere tranquillamente identificate come sorta di moderne streghe (ne parlavo giusto qualche giorno fa esattamente in questi termini, qui https://www.optimagazine.com/2021/11/17/dalise-anna-soares-e-costanza-savarese-storia-di-streghe-contemporanee/2241008). In pratica, mi ritrovo a essere inquisitore e colluso con le streghe, fatto che potrebbe fare di me il protagonista di un film di quelli nei quali il protagonista è appunto un personaggio tormentato, uno che fa il moralista ma nel segreto delle sue stanze è assolutamente poco dedito alla morale corrente, o più semplicemente la perfetta incarnazione dello zeitgeist, mai come oggi lo sconfinamento e la contaminazione è presente e costante. Visto che si parla di donne, di streghe e di morale, potrei ora far slittare il mio discorso su una figura centrale per la cultura occidentale, spesso anche a insaputa degli occidentali stessi, quale Ildegarda Von Bingen, monaca, santa, intellettuale, filosofa, mistica, teologa e, per volontà di Benedetto XVI, dottore della chiesa, mentre era in vita, parliamo dell’anno mille, più volte in odor di eresia (non a caso i suoi testi mistici erano scritti in una lingua ignota, da lei inventata). Un personaggio interessantissimo, anche a livello pop, a lei, vuole la leggenda, si deve l’invenzione della birra fatta col luppolo, e che in ambito musicale, tra le altre attività, oltre quella di erborista, scrittrice, curatrice, era anche una raffinata musicista e compositrice, viene indicata come la prima donna a comporre musica, fatto che per altro, come per buona parte delle sue attività, svolse da completa autodidatta, non conoscendo la scrittura musicale né la notazione. Un personaggio dalla personalità talmente articolata e imponente da spaventare i suoi contemporanei, non fosse stato per Papa Eugenio I, che la autorizzò a scrivere delle visioni che aveva avuto da piccola, lei ovviamente non si limitò a scriverne, ma corredò i suoi scritti con miniature e illustrazioni raffinatissime, e a parlarne in pubblico, diventando praticamente santa anche in vita, sarebbe finita con buona probabilità arsa viva da qualche parte, pur sempre nel Medioevo siamo.

Volendo spostare il discorso sulla contemporaneità, sempre che una donna che scardina tutte le concezioni calcificate di un’epoca percorrendo la propria strada non sia quanto di più attuale si possa ambire a vedere, io di questo mi occupo spesso, con tutte le differenze del caso, scrivendo di cantautrici e di artiste donne, potrei azzardare qualcosa riguardo l’album che Angelo Branduardi ha dedicato alla santa mistica, Il cammino dell’anima, uscito ormai due anni fa, o addirittura passare a parlare di Camille, talentuosissima cantautrice francese che a Santa Ildegarda ha dedicato il bellissimo brano Tout dit, per altro finito proprio dentro il mio monologo teatrale Cantami Godiva, interpretato divinamente dalla talentuosissima cantautrice italiana Patrizia Laquidara. Invece, siccome non mi piace vincere facile, e soprattutto di questi argomenti ho già avuto modo di parlare in altre circostanze, oggi il citarle e menzionarle è più che sufficiente, vorrei approfittare di questo mio essermi perso a parlare di inquisitori e streghe, di mistiche e di eretiche, andando a citare una cantautrice che ha fatto del mondo la propria patria, e della natura, in questo sì che Ildegarda è sempre presente, la lente con cui guardare alle cose del mondo, parlo della cantautrice di origini argentine Vanina Vincent. È di recente uscito l’ultimo estratto, in realtà una outtake, del suo lavoro Bloom, dal titolo Dime Devi, un lavoro, Bloom, rimasto imballato dentro il suo computer a causa della pandemia e che, divenuto una sorta di raccolta di singoli, ogni brano associato a una copertina affidata a un artista diverso, il titolo di questa operazione transartistica Enciende el color de la musica, un suono acustico a caratterizzarne la poetica, oltre che un doppio passo dettato dai testi, scritti in spagnolo ma a tratti con l’italiano a dettare la linea, il cantautorato a mashuppare con il folk etnico della sua terra d’origine, ha proprio in Dime Devi la sua incarnazione più sperimentale, l’elettronica a giocarla da padrona laddove in Bloom rimaneva sempre sullo sfondo, e una carica di ottimismo a uscire da ogni singola nota o parola del testo. Se l’intento di Bloom, in nomen omen, era quello di raccontare la forza della natura, in senso stretto e di natura femminea in senso lato, con il nuovo lavoro è come se Vanina avesse deciso di staccare lo sguardo da terra e rivolgerlo alle stelle, le immagini che accompagnano il lancio di questo anomalo brano, ancestrale, stregonesche, selvagge ne danno una perfetta visione. Un lavoro indipendente, quello di Vanina Vincent, e mai come oggi tenersi a debita distanza dalla macchina sembra la sola via per poter percorrere una strada che non sia quella scontata del mainstream, il famoso pensiero unico che così tanto ci sta caratterizzando in negativo. Una piccola strega, quindi, che da inquisitore col pungolo quale sono non posso che raccomandarvi, anche per riconciliarvi con quel suono latino che spesso, a ragione, associamo a musica decisamente meno riconciliante col creato.

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