Quando ero giovane, intendo giovane davvero, non in questa versione posticcia di gioventù nella quale siamo destinati a vivere fino a un’età prossima alla pensione, ero piuttosto radicale nelle scelte. A trentacinque anni, trentasei, ho deciso che avrei smesso di lavorare come critico musicale, o almeno che avrei smesso di farlo lavorando per riviste e quotidiani. Ero su quella che tecnicamente potrei chiamare “la cresta dell’onda”, perché ero entrato in corsa in una redazione rodata come quella di Tutto Musica e mi ero ritagliato nel giro di poco tempo un ruolo di primaria importanza, e nel mentre collaboravo anche con altre realtà editoriali di primissima scelta, penso a Panorama, al neonato Rolling Stone, a Rockstar, a Amica, a MarieClaire. Ero anche un reporter, mandato in giro per il mondo a raccontare luoghi per GenteViaggi. Tutto molto bello, ma mi ero convinto che a trentacinque, trentasei anni fossi troppo vecchio per stare al passo coi tempi, e anche un po’ troppo addentro al sistema musica per poter svolgere bene il mio mestiere senza perdere sincerità e credibilità. Certo, l’aver azzeccato un best seller, sempre legato al mondo della musica, parlo di libri, ha avuto sicuramente un peso, non voglio dire che oltre che radicale fossi anche completamente pazzo, ma di fatto ho mollato quella che al momento era una carriera in ascesa, andando in pensione anzitempo. Certo, dire che sono andato in pensione è una metafora, a voler essere benevoli nei miei confronti, o una immane cazzata, se si vuole rimanere nel campo del pragmatismo, perché smettendo di scrivere per riviste e quotidiani, di fatto, smettevo anche di guardare alla critica musicale applicata a riviste e quotidiani come una fonte di guadagno, nessun compenso, nessuna pensione. Pur con qualche variazione sul tema, questa mia condizione di giovane critico musicale che abbandonava la scena, lasciando spazio a quelli che nella mia testa erano i giovani colleghi, per ben nove anni, tornando saltuariamente sulla scena del crimine, e sempre e comunque con progetti mirati e a tempo. In realtà, questo lo avrei scoperto solo dopo, i giovani non avrebbero mai trovato campo, salvo rarissime accezioni, visto che i miei coetanei e anche i colleghi più anziani, molto più anziani, non hanno mai mollato l’osso, rimanendo imbullonati alle proprie sedie manco ne andasse della propria vita. I giovani, del resto, non hanno mai provato a fare sul serio, vuoi perché nel mentre è arrivata la rete, che ha spazzato via del tutto la carta stampata, e in rete chi non ha ancora nome non può certo contare su risorse economiche, vuoi per una forma virulenta di assenza di coraggio che li ha spinti in massa, tipo epidemia, a stare sottotraccia, andando quindi a perorare la causa degli editori del tutto intenzionati a non dare equa paga a chi, di fatto, non offre motivi di interesse, e soprattutto è incapace di fidelizzare i lettori, andando quindi a portare numeri o quantomeno a non perderli.
Che a un certo punto io abbia cambiato idea, beh, mi sembra piuttosto evidente. È accaduto nell’agosto del 2014, quando Peter Gomez mi ha invitato a scrivere per il sito del Fatto Quotidiano, il seguito lo sapete già. In realtà, a metà di questi nove anni, a cavallo tra i due decenni, mi era già stato fatto notare che ritirarsi a trentacinque anni poteva suonare un filo prematuro, e soprattutto mi era stato prospettato lo scenario non esattamente edificante che comunque era rimasto lì, in mia assenza. Non che ci fosse una correlazione tra la mia assenza e la desolazione tutto intorno, ma era evidente che il mio essermi fatto da parte non aveva sortito effetti di alcuni tipo, parlo di effetti benefici. Era stata Paola De Simone a farmelo notare, invitandomi a prendere parte al suo progetto Popon, portale dedicato alla musica italiana, seconda realtà per ordine di arrivo dopo il sito MusicaItaliana, a sua volta nato per volontà di un giornalista abruzzese, Arnaldo Guido. Su Popon ho scritto salutariamente, prima una rubrica settimanale dal nome Lo stato dell’arte, sono sempre stato piuttosto modesto nel ricercare i nomi dei miei progetti, e poi Via Tadino 52, che era l’indirizzo della mia precedente abitazione, romanzo a puntato che avrebbe dato vita al ben più ambizioso progetto Bikinirama, un romanzo scritto a quattro mani con Berarda Del Vecchio, un disco da me prodotto e scritto con la collaborazione di artisti altisonanti quali Enrico Ruggeri, Tiromancino, Andrea Mirò e altri, una band al femminile sotto il cui nome era racchiuso tutto quanto, Bikinirama. Progetti che mi interessavano, Paola, collega che stimavo e stimo mi aveva dato massima libertà, pur nell’alveo della musica italiana, core business del sito, e che quindi mi avevano fatto riappassionare alla critica musicale. Progetti letterari, per altro, fatto che in qualche modo avrebbe presagito a questo mio nuovo corso, sorta di mash-up tra il mio ruolo di critico musicale e quello di scrittore. Paola, in seguito, mi introdurrà anche al mondo delle radio, è a lei che devo il mio ingresso a Radio InBlu, dove ho portato il programma Ritratto d’Arista, anche lì, in anticipo su quello che in seguito avrei fatto a RTL 102,5. Paola, quindi, è persona a me molto cara, e quando mi ha invitato a prendere parte al FLA- Festival di Libri e Altrecose, di stanza a Pescara a metà di novembre, non ci ho pensato neanche un secondo a dire di sì. Non ci vedevamo da anni, e farlo ritrovandosi su un palco a chiacchierare insieme e insieme a Federico Zampaglione dei Tiromancino è stato quantomeno appassionante. Il fatto che di fronte a noi, al Teatro Circus di Pescara, ci fossero circa cinquecento persone, ovviamente, ha fatto da perfetta cornice al tutto, anche se confesso che gli arrosticini mangiati un paio di ore dopo, seconda cena della serata dopo gli strogoli con vongole mangiati prima dell’evento, hanno dato al tutto un ulteriore motivo di memorabilità. Federico, da parte sua, si è speso come raramente mi è capitato di vedere da parte di un artista affermato, e di artisti affermati in questi anni ne ho davvero incontrati tanti, spesso in situazioni simili, una trentina di canzoni improvvisate sul palco, oltre le sue anche una manciata di singoli presi da ogni genere possibile, dal country al blues, passando per omaggi a Judy Garland, ai Dire Straits e pure a Califano e Dalla.
L’indomani, dopo una notte insonne, mai mangiare arrosticini prima di andare a letto, Paola si è anche prestata a presentare me, o per meglio dire, due miei libri, Guida psicogeografica per autostoppisti e Cantami Godiva, libri usciti in questi mesi e che mi hanno permesso di tornare a incontrare gente dopo quasi due anni di clausura, questa è l’ottava presentazione che ho fatto quest’anno, praticamente più di quante non ne abbia fatto nel corso dei precedenti ventitré anni, quelli cioè passati da quando ho esordito, ottantuno libri che mi sono guardato bene dal presentare, salvo una manciata di occasioni. Con noi, me e Paola, e questo era in effetti già capitato in tutte le altre occasioni, a Aielli Silvia Oddi, a Roccascalegna Serena Abrami, a Vasto Setak e Friotto, a Loreto Eleviole?, a Milano Enrico Ruggeri, nelle tappe di Sirolo e Aversa a presentarmi erano stati Laura Fagioli e Daniela Esposito, con noi a Pescara due graditi ospiti, presenti nelle pagine del libro dedicato proprio all’Abruzzo, ovverosia Giovanni Di Iacovo e Arnaldo Guido, 100% della band degli Anticorpi (qui trovate un mio pezzo in cui vi spiego meglio chi sono. Essere parte del cast del FLA è stato ovviamente un onore, seppur uno sguardo alla platea dell’Auditorium Petruzzi, lì è avvenuto l’incontro che girava intorno a me e alle mie parole, platea altrettanto attenta e, credo di poter dire senza finire nel narcisismo, divertita, ma in numero decisamente infinitesimale rispetto a quella del Teatro Circus, dimostra come la percezione che il resto del mondo ha di me sia un filo diversa da quella che la mia autostima mi induce a avere, essere lì insieme a una amica e collega stimata, una delle poche, pochissime, e a due artisti geniali e deragliati come gli Anticorpi, è un onore supplettivo.
Certo, per arrivare a Pescara, venerdì 19, ho dovuto superare la noia di sei ore di treno, in parte offerte da una professoressa no vax che a Parma ha ben pensato di protestare contro controllore e Polfer, andando a bloccare il convoglio, e nel tornare il treno è arrivato a Pescara già con un’ora di ritardo, andando poi a sommare a quell’ora un’altra mezzora, fatto che da una parte mi ha concesso la possibilità di un buon pranzo a base di anelli alla pecorara in compagnia di Arnaldo degli Anticorpi, lì a parlare di musica e vita, fatto che mi ha indotto a pensare che no, non sono più fatto per viaggiare e che comunque l’apatia che mi ha tenuto compagnia per tutti questi lunghi mesi pandemici aveva anche qualche lato positivo, ma nei fatti tornare a fare cose che prevedono l’incontrare gente, che si tratti dei volti di amici e quelli del pubblico, è sempre emozionante. Come è stato emozionante passare in treno per la mia Ancona. Credo sia la prima volta in vita mia che passo da Ancona senza fermarmi in Ancona. Fatto che ovviamente mi ha lasciato titubante fino all’ultimo, i miei genitori, i miei fratelli e i miei amici che non ho potuto riabbracciare, da una parte, i troppi impegni e scadenze da onorare su a Milano, dall’altro. Vederla dal treno, come vedere il mare, il mio amato mare, mare che sono andato a trovare a Pescara, prima della presentazione dei miei libri, laggiù, in fondo a corso Umberto I, mi ha indotto in uno stato di malinconia che non credevo di saper più provare. Perché è ovvio che i miei mi manchino, lo fanno da ventiquattro anni a questa parte, dacché, cioè, ho lasciato in esilio Ancona per trasferirmi a Milano, ma non pensavo che potesse essere la vista della città a indurmi quasi come un Chico Buarque de Hollanda in procinto di scrivere una devastante bossanova. E dire che il mio essere a Pescara e il mio essere a Pescara a presentare non solo il mio libro dedicato al femminile in musica e al corpo delle donne dentro le canzoni, ma il mio libro dedicato a Vasto e a tutto l’Abruzzo, era un modo proprio per prendere decise e definitive distanze dalla mia terra natale, troppe volte celebrata e rimpianta e mai reciproca nel dimostrarmi il suo amore, terra ingrata. A vederla scomparire all’orizzonte, mentre il treno procedeva verso nord, al ritorno, ho sentito letteralmente una bossanova scaturirmi da quel posto di cui non saprei dire il preciso nome anatomico, ma che so si trova a metà strada tra lo stomaco e il cuore, una bossanova tristissima, la quintessenza della malinconia, della morabeza, della tristezza.
Siccome, però, immalinconirsi per la città che ti ha spinto in esilio è quantomeno disdicevole, tanto più se di ritorno da Pescara, seconda solo a Ascoli nella scala di ostilità rispetto a Ancona, ho preso spunto da una frasetta buttata lì da Giovanni Di Iacovo degli anticorpi durante la presentazione, per cacciare decisamente indietro tutto questo, ho cioè preso il mio tablet e sono andato a ascoltarmi quella parte della discografia di John Zorn che lì mi sono scaricato, proprio per situazioni come questa. Provateci voi, infatti, a essere malinconico, mentre il buon vecchio John strapazza il suo sax, Bill Laswell al basso, suoni dolorosi, lancinanti, acuti, dissonanti, un’idea del jazz che si avvicina pericolosamente al grindcore, velocissima, difficile da decifrare a orecchio esperto, figuriamoci ai miei, di orecchi, che di jazz so poco o nulla. Una vera manna, se si tratta di distrarre il cervello, una salvezza se si tratta di distrarre il cuore. A ispirarmi, facevo cenno prima, una frase detta da Giovanni degli Anticorpi, in realtà anche romanziere, ex assessore alla cultura e vicesindaco di Pescara, agitatore culturale indefesso, una frase ispirata dall’aver sfogliato Guida psicogeografica per autostoppisti e aver buttato l’occhio proprio dove cito Valentina Nappi, è suo il nome nel titolo di questo testo, e per altro è curioso che, facendo la medesima cosa, Arnaldo, a sua volta metà degli Anticorpi, ma anche agitatore culturale, editore, giornalista, dj e chi più ne ha più ne metta, ha estrapolato il capitolo “Come chiamano la figa gli alieni”, nel suo caso il libro era Cantami Godiva, se c’è una morale al momento mi sfugge. Comunque, leggendo il nome Valentina Nappi, Giovanni si è sentito di bullizzare gli astanti, diciamola così, andando a farci sapere di aver messo i dischi a una festa di compleanno della pornostar napoletana, famosa non solo per le sue indubbie capacità nell’industria del sesso, quanto per le sue esternazioni in campo filosofico, nota la querelle che l’ha vista mettere a tappeto Fusaro, Fusaro che per altro credo abiti nel mio quartiere, giorni fa l’ho visto in giro con un passeggino, unico motivo che lo ha salvato dal sentirmi citare perculante il turbocapitalismo, e politico. “Ho messo i dischi al compleanno di Valentina Nappi, anni fa,” ha detto, bullo. “Pensa te, a casa aveva solo dischi di John Zorn”, ha poi aggiunto, convenendo con noi che la cosa fosse sorprendente, non perché dovesse avere solo dischi di Fausto Papetti, è chiaro, ma John Zorn è John Zorn. A pensarci bene anche Valentina Nappi è Valentina Nappi, e questa frase è meno ovvia di quanto si potrebbe pensare.
Parlando però di musica, ho sempre apprezzato John Zorn, anche prima di sentire queste parole da parte della metà degli Anticorpi, e l’ho spesso usato per difendermi da certe illazioni, lanciate così, a mezz’aria, riguardo la mia iperproduttività editoriale, “ottantaquattro libri pubblicati in ventitré anni, ma come fai?”, illazioni che a volte sono anche ammirazione, certo, ma spesso lasciano intendere che ci sia un qualche trucco, che so?, un team al mio servizio o roba del genere. John Zorn ha pubblicato centinaia di dischi, io quasi un centinaio di libri, non rompete troppo le palle. Il fatto, poi, che il nostro ami collaborare davvero con un sacco di gente che ammiro, da Bill Frissel a Dave Lombardo, passando per il già citato Bill Laswell o Mike Patton, arrivando a Mick Harris dei Napalm Death, spaziando su più fronti e più generi, sempre spalmati di jazz sperimentale, non fa che renderlo ancora più affascinante ai miei orecchi, anche se, lo so, da oggi ho un motivo in più per amarlo, il sapere che almeno su una cosa io e Valentina Nappi abbiamo gli stessi gusti.