Il sabato sera, per tradizione familiare, guardiamo un film tutti insieme. La tradizione familiare non comprende in realtà tutti, chiunque abbia un figlio adolescente ben lo sa, convincerli a fare qualcosa insieme al resto della famiglia è impresa nella quale riuscirebbe a fatica anche un supereroe, figuriamoci due genitori come me e mia moglie Marina. Quindi per tradizione familiare il sabato sera guardiamo un film tutti insieme, e quel tutti insieme riguarda me, mia moglie, i gemelli, mia suocera e basta. Mia figlia Lucia, da che è divenuta maggiorenne, in genere il sabato sera stava a cena fuori, rientrando sempre in orari decenti, su questo, lo confesso, sono un genitore molto ma molto tradizionale. Mio figlio Tommaso se ne sta in chiuso in camera sua, a giocare online coi suoi amici. Dopo che il Covid è giunto a scombinare le nostre abitudini, quelle macro, come andare al lavoro in ufficio, per chi ha un ufficio in cui andare al lavoro, andare a scuola, uscire per incontrare gli amici o incontrarli a casa, la tradizione familiare ha subito qualche modifica, diventando altra tradizione, dopo un anno circa si può in effetti iniziare a chiamare così anche le nuove usanze che ritenevamo temporanee e emergenziali. Quindi ora a guardare il film il sabato sera in sala, disposti su due divani, ci siamo io, mia moglie, i gemelli e Tommaso, che in realtà sta seduto al tavolo con cuffie e device, a giocare coi suoi amici. Lucia non è fuori, c’è il coprifuoco, o c’era il lock down, comunque i ristoranti, anche i kebabbari o quelli dove si mangia sushi, la sua passione, sono chiusi. Quindi Lucia sta a casa, ma invece di vedere un film con noi si guarda un film col suo ragazzo, entrambi davanti al computer, collegati su whatsapp in videochiamata. A volte, raramente, cenano anche insieme, in questa modalità, vestendosi elegante, truccandosi, accendendo candele. La cosa, l’ho già detto anche troppe volte, mi commuove, perché penso a quando io e Marina avevamo la loro età, ci siamo messi insieme da diciottenni, e penso a come la possano vivere. Poi, è chiaro, alla prima occasione praticherò atti di bullismo estremi nei confronti del suo ragazzo, eserciterò il sacrosanto diritto di essere un padre orco che è geloso della propria figlia, ricorrerò forse anche alla violenza fisica, ma al momento la cosa mi commuove.
Da che comunque abbiamo questa tradizione familiare di vedere insieme un film, il sabato sera, la scelta dei film è un compito che tocca a me. In casa succede così, io sono quello che si occupa di un sacco di cose, come mia moglie, ma su certi ambiti abbiamo divisioni ferree. Io cucino raramente, per dire, perché lei è decisamente più brava. Cucino solo i piatti che mi vengono bene, in genere non piatti comuni, per il resto mangio. Io però faccio sempre la spesa. Sempre. Lei si occupa di organizzare i compiti dei gemelli, io mi smazzo parte dei compiti, laddove sia richiesta la presenza di un adulto, a volte ci sono video, vocali, roba del genere. Lei si occupa di preparare i vestiti che i gemelli metteranno l’indomani a scuola, gestisce il giro lavatrici, le faccende di casa, aiutata da mia suocera, io faccio i lavori di casa, quando si rompe qualcosa, accompagno e vado a prendere i gemelli a scuola, mi occupo di bollette e varie amenità. Lei si occupa delle questioni diplomatiche, quali teneri i rapporti con gli altri genitori nelle famosissime chat, io quando c’erano ancora, andavo ai colloqui coi professori dei figli adolescenti, sempre in orario di ufficio, dove lei veniva solo quando aveva modo. Comunque, in generale, qualsiasi problema che i nostri figli si sentano di avere, amoroso, con gli amici, con gli insegnanti, con la vita, vanno da Marina, qualsiasi tipo di affare effimero e anche superficiale, dalla serie Tv che sta entusiasmando Lucia alla passione per i Bitcoin di Tommaso, passando per i “mi disegni Spongebob su questo foglio” a “guarda come riesco a toccarmi la punta del naso con la lingua”, questo è affare mio. Non voglio indagare troppo, anche se credo che tanti anni da padre di famiglia, e padre di una famiglia numerosa, qualcosa mi hanno insegnato, ma io vengo genericamente considerato uno vagamente cialtronesco, che si occupa di canzoni, di cantanti, che fa i video buffi online, che va in radio e tv, mentre Marina è quella seria, che fa infinite call in inglese, ora che da oltre un anno lavora a casa anche i nostri figli finalmente capiscono in cosa consiste il lavoro di Marina, una seria. Per questo la scelta del film, che è sì passaggio importante, ormai si tratta del solo svago extraroutinario che ci si può concedere, visto che non si possono fare cene con gli amici, gite, robe del genere, ma comunque ascrivibile al mondo dell’intrattenimento, tocca a me. Avrete sentito tutti il famoso scambio di battute “Che lavoro fai?” “Lavoro nel mondo dello spettacolo?” “Ah, bello ma poi di lavoro cosa fai?”, spesso riportato da musicisti e cantanti alle prime armi, ecco, pensate a cosa mi posso essere sentito chiedere io che di lavoro faccio qualcosa di ancora più fumoso, scrivo libri, vado in radio, vado in tv, lavoro online. Il che, in casa, si traduce con me che magari passo un intero pomeriggio a ascoltare un album, a ripetizione, o che mi guardo compulsivamente tutte le stagioni di una serie Tv di cui voglio scrivere. O di me che leggo steso sul divano. Fagli capire che sto lavorando, mentre mia moglie parla in inglese con le cuffie e fissando un computer.
Comunque. Il sabato sera, per poter onorare la tradizione familiare che vuole che noi si guardi un film tutti insieme, più o meno parzialmente, in genere io passo la mezzora prima di cena, per tradizione il sabato sera in casa mia si mangia pizza fatta in casa, guardando che film potremmo vedere. Consulto quindi il catalogo di Sky, Netflix, Amazon Prime. Sembra cosa semplice, ma ci sono dei parametri dentro i quali dobbiamo restare, e i parametri mi ricordano quella famosa scena di Tutta colpa del Paradiso, film di Francesco Nuti, quando lui sta a bordo di una corriera che porta appunto nel paesino di montagna dove il film si svolge, corriera che arranca in salita. A un certo punto l’autista capisce che proprio la corriera non ce la fa. Allora ferma il mezzo e si rivolge ai tanti che sono a bordo, i passeggeri. E dice qualcosa come “Devono scendere tutti, purtroppo, tranne gli anziani, i bambini, le donne incinte e chi ha problemi di carattere fisico”, vado a memoria. La scena successiva vede la corriera ripartire e il solo Francesco Nuti a terra. Ecco, posso fare le mie ricerche, leggere le sparute sinossi presenti su quelle piattaforme, andare a confrontarle con le recensioni online, vedere qualche spezzone, capire anche se siano film in effetti per tutti, perché i gemelli sono piccoli, e andare avanti velocemente di fronte a certe scene di sesso, per dire, sì, sono di quei genitori che ritiene che a nove anni non sia bene vedere scene di sesso o estremamente violente in tv, è uno stress, ma alla fine incapperò sempre in richieste dell’ultima ora che renderanno parte delle mie ricerche vane, roba del genere che, a fronte di oltre mezz’ora di ricerca certosina, mi sento dire: “Ah, tutto qui? Non c’è proprio niente di più interessante?”. Perché succede che io magari mi concentri su qualche commedia, i film tragici, è ovvio, non piacciono ai gemelli, ma Marina non abbia proprio voglia di vedere una commedia, cosa che però mi dice nel momento in cui io sto per fare la mia presentazione dei titoli scelti, anche orgoglioso del mio lavoro fatto nel tardo pomeriggio. O magari ho trovato un film importante, serio, pazienza se i gemelli non lo capiranno, ma lei, Marina, vuole vedere qualcosa di leggero, che la settimana lavorativa è stata anche troppo dura. Il tutto sapendo che i gemelli vorranno vedere sempre e comunque un film con Bisio, De Luigi o Antonio Albanese, non si uscirebbe da questi tre attori, fosse per loro. Del resto, questa è una micro tradizione nella tradizione, poi passeremo la serata a tornare indietro di qualche frame, perché Francesco avrà parlato tutto il tempo e noi avremo faticato a capire battute quasi sempre centrali, finendo per minacciarlo con frasi nei confronti dei quali le scene violente che avrò responsabilmente censurato nel pomeriggio sarebbero poca cosa.
Lo so, penserete che io stia portando per le lunghe un discorso interno al mio menage familiare, che a discapito del titolo io mi stia pendendo in aneddoti e congetture fuori fuoco, ma ci sarà un motivo per cui io sono quello che scrive e voi quelli che leggono, no? Fatemi lavorare senza interrompermi, sto sin dall’inizio affrontando l’argomento di cui voglio parlarvi, fidatevi di me.
La settimana scorsa, sabato scorso, abbiamo visto un film che nei fatti avevo messo nella lista da sottoporre al giudizio dei miei familiari, giudizio dei miei familiari che nei fatti si traduce sempre nella scelta di Marina, patriarcato e patriarcato ma la situazione reale è questa, più per fare massa che perché pensassi che lo avremmo in effetti visto. Un film, quindi, che corrisponde a quei brani minori che negli anni in cui era il CD a imperversare in musica, quindi un formato che consentiva la presenza di molte più canzoni di quante non ne fosse consentito nei vinili, e che in qualche modo sembrava aver imposto agli artisti di pubblicare sempre tante canzoni, come se non riempire i settantaquattro minuti a disposizione fosse una sorta di reato contro l’umanità. Lo avevo scelto perché me lo aveva suggerito Netflix, piattaforma nei confronti delle cui scelte ho serissimi dubbi, nei mesi mi è capitato di iniziare a vedere, quando fingo di lavorare ma in realtà cazzeggio, roba che non consiglierei neanche a un analfabeta funzionale, il che dimostra che o Netflix sbaglia algoritmo, o ha poca stima di me, o io ne ho troppa di me.
Comunque, il film che abbiamo visto è Chi mi ha visto?, una commedia con Beppe Fiorello e Pierfrancesco Favino, e lo abbiamo visto perché a Lucia, di colpo, ha smesso di funzionare il computer. Vi ho detto come i suoi sabato sera siano diventati, da un anno a questa parte, un momento di incontro a distanza col suo ragazzo, guardano film insieme, commentandolo su whatsapp. Non avere il computer, quindi non avere il device con cui guardarlo è un po’ come non poter uscire in un contesto normale. Ovviamente la cosa mi è stata comunicata con una tempesta di urla, messaggi su whatsapp, sì, lei comunica con noi anche con whatsapp, pur essendo in casa, sbattute di porte e altre amenità. Io ho provato a farla ragionare, perché spesso i problemi coi device che a lei sembrano insormontabili si dimostrano risolvibili con quello che Aranzulla indicherebbe come “spegni e riavvia”, ma a nulla è valso. In effetti non le funzionava il touchpad, il mouse interno al PC. Ho perso un po’ di tempo a cercare la soluzione, poi è intervenuto Tommaso, che in effetti ha salvato la situazione. Solo che nel mentre si era fatto tardi, per cui il film che sapevo avremmo scelto, a volte metto un solo film valido nel mazzo, perché è quello che io voglio vedere, lo so, sono una brutta persona, L’isola delle rose, era impraticabile, due ore di film pretendono che si parta con la visione presto, o poi la mattina sarebbe impossibile alzarsi a un’ora decente, e i piccoli hanno sempre compiti da fare, anche di domenica. Quindi la durata del film è diventata determinante. Di conseguenza le aspettative con cui abbiamo iniziato la visione del film, perché se è la durata di un film a determinarne la scelta, converrete, non è che ci sia granché da aspettarsi.
Il film si è invece rivelato interessante, appassionante, addirittura. Parlo di un film visto di sabato sera, in famiglia, non siamo alla Semaine de la Critique di Cannes. È la storia di Martino, interpretato da Fiorello Jr, so di essere impietoso e anche un po’ baro definendolo così, ma è attinente al discorso che sto facendo, fidatevi, un chitarrista che suona con le nostre star, all’inizio del film è in tour con Jovanotti, che di colpo entra in crisi. Non è il turnista che vorrebbe fare, e il fatto di non essere riconosciuto come artista, né dal sistema né dal pubblico, lo sconforta. Torna in paese, dove incontra il suo vecchio amico Peppino, interpretato da Favino, e decide che il solo modo per essere notato è scomparire. Non voglio spoilerare troppo, anche se in parte già l’ho fatto e me ne scuso, il film è del resto di qualche anno fa, non è mica un dato secretato dai servizi, ma a convincerlo a scomparire è un programma che è in sostanza il nostro Chi l’ha visto?, nel film si chiama Scomparsi e è condotto da Sabrina Impacciatore, sempre simpatica come nella vita reale.
Martino si nasconde, passa da quel programma la sua scomparsa, comincia a diventare popolare e, questo il punto, il suo nome e anche il suo talento, di colpo diventa riconosciuto da tutti, ma proprio tutti tutti. Il film vede la partecipazione amichevole di tanti cantanti italiani, dal già citato Jovanotti a Morandi, passando per Elisa, Giuliano Sangiorgi, Giorgia, Max Pezzali, davvero un sacco di artisti. Iniziano facendo appelli, trasmessi dal programma della Impacciatore, ma più passa il tempo più gli appelli si fanno accorati, più le loro parole diventano sentite, emozionate. Qualcuno, Sangiorgi, Jovanotti, si mette addirittura a piangere. Non vi racconto il finale, disincantato, del resto Beppe Fiorello aveva già fatto un ruolo del genere nel film di Carlo Verdone, C’era un cinese in coma, evidentemente ha una visione del mondo dello spettacolo un filo disillusa, o chi si occupa di casting pensa che abbia una faccia adatta a interpretare personaggi che raccontino quella visione lì, ma nel film sembra evidente che l’essere artisti, a volte, o almeno l’essere artisti riconosciuti è una mera faccenda di casualità: scompari e di colpo ti si nota, per i motivi sbagliati, ovviamente, ma ti si nota e arrivi addirittura a lasciare un vuoto che, a bocce ferme, non hai mai colmato.
Ora sto per compiere un gesto violento. Uno di quei gesti che, fosse in un film, comporterebbe l’uscita da una qualsiasi lista dei film visionabili un sabato sera in casa mia, alla presenza dei miei figli piccoli.
Un gesto tanto più violento perché arriva dopo che, per un numero di parole ampissimo, quasi duemilacinquecento, vi ho intrattenuto aprendovi le porte di casa mia, chiedendovi quindi di accomodarvi sui nostri divani, fraternizzando con voi, abbattendo pudori e quindi fornendo una confidenza che, potrebbe non sembrare, non è poi così normale da leggere. Quindi un gesto violento che si consuma mentre siete in ciabatte, spettinati, abbracciati a qualcuno cui volete bene. Di colpo.
È morto Adriano Urso, pianista jazz romano. Piuttosto noto tra gli appassionati di genere, anche in virtù di essere fratello dell’altrettanto noto Emanuele, il Re dello Swing, così lo chiamano. Un pianista apprezzato dagli appassionati, da chi quindi segue quel particolare genere musicale, ma anche dagli addetti ai lavori, alla sua morte sono seguite le parole di commiato di tanti, gestori di locali quali il Cotton Club di Roma compresi. Parole di commiato, qui sta la violenza, parte della violenza, il principio della violenza, che si sono subito fuse a parole di frustrato dolore, di rivendicazione di un senso di giustizia andato perduto, peggio, parole intrise di un senso di abbandono che, di fronte alla morte, diventa monito per i colpevoli, chi cioè quell’abbandono ha compiuto o reso possibile.
Perché Adriano Urso, quarantuno anni, pianista jazz, è morto per un malore mentre stava spingendo la sua auto, una 750 d’epoca, aiutato da due passanti, e fin qui si potrebbe trattare di una tragedia di quelle che purtroppo capitano tutti i giorni.
Ma nei fatti la tragedia ha sfumature se possibili ancora più tragiche, Adriano Urso era infatti in strada a spingere affannato la sua 750 d’epoca, rimasta improvvisamente ferma, perché da mesi stava lavorando come rider per una nota azienda di quelle che consegna per pochi spicci cibo a domicilio.
Sì, un artista, un pianista jazz, che si ritrova senza lavoro causa pandemia, sorte toccata anche a altri, è chiaro, e che per sopravvivere decide di andare a portare cibo a chi non ha voglia di uscire, si leggano queste mie parole intrise di quel senso di disprezzo nei confronti di questa forma di neomedievalità che vuole un servizio di lusso fatto passare come cosa alla portata di tutti, ma con prezzi non di lusso, al limite del caporalato e quindi dello schiavismo, trovando la morte, decisamente prematura.
Ora, sgombriamo il campo da qualsiasi ambiguità, non voglio sostenere che la vita di un pianista di jazz convertitosi suo malgrado a rider abbia più valore di quella di qualsiasi altro rider che si vede in giro per le città, anche negli orari più disparati e con il meteo più ostile. Figuriamoci, la vita è vita. Ovvio che la storia di Urso colpisca, perché sono mesi che sentiamo gridare di dolore un intero comparto abbandonato a se stesso, quello dello spettacolo e della cultura, e quando uno di questi gridi di abbandono si associa a un manifesto funebre, a un epitaffio, beh, la faccenda prende contorni assai più duri e lapidari. La storia di Urso ci dice quello che in tanti hanno provato a dirci, ma ovviamente il discorso sarebbe valido anche se Urso avesse fatto il barista e il suo bar non avesse più potuto alzare la saracinesca per via degli affari naufragati sotto Covid, o uno dei tanti, tantissimi lavori che si sono persi in questi mesi sotto assedio e emergenza.
Le puntualizzazioni del fratello Emanuele, ai microfoni di Radio Capital, ospite di Selvaggia Lucarelli, atte a sottolineare come non fosse tanto una questione economica a aver spinto Adriano a fare il rider, quanto piuttosto la necessità di incontrare persone anche in periodo di coprifuoco, nei fatti, non intacca minimamente il mio ragionamento, sempre di lavorosemischiavistico si tratta, e sempre di lavorosemischiavistico fatto per necessità, non economica ma di socializzazione si tratta, anche se nello specifico sarebbe chi ci ha tenuto segregati il beneficiario degli strali in quanto segregatore, non in quanto dimentico della categoria professionale di chi opera nello spettacolo.
Poco o nulla cambia.
Non è di questa sfumatura che volevo parlare. Mi ricollego al film Chi mi ha visto?, come anche a quanto detto prima di arrivare a parlare del film, riguardo il mio ruolo all’interno della mia famiglia, neanche il tempo di far raffreddare il cadavere, scusate la violenza verbale, ma credo che lo shock a volte sortisca effetti assai più efficaci della delicatezza e compostezza, che in tanti si sono buttati su questa storia, evocando una attenzione rispetto a quel mondo, quello dello spettacolo, che a parte essere beffeggiato dalle parole idiote di Conte, “gli amici artisti che ci fanno divertire e emozionare”, è veramente stato lasciato al palo, dimenticato da Dio e soprattutto dagli uomini. Di colpo in tanti si sono accorti di Urso, come nel film succedeva con Martino, solo che lì era fiction, qui la triste realtà, di colpo in molti ne hanno cominciato a parlare quasi fosse una figura centrale della nostra musica e di conseguenza della nostra società e della vita di tutti, non dico che siamo arrivati alle lacrime di Giuliano Sangiorgi nel film in questione, ma leggere le parole di un Gramellini sul Corriere a quello mi hanno fatto pensare.
La realtà è un’altra.
Adriano Urso, probabilmente un bravissimo pianista, non fingerò di averne sentito parlare prima della sua morte e, non fosse morto in quel modo, probabilmente non ne avrei proprio mai sentito parlare, è morto perché era stato dimenticato, abbandonato, costretto a fare un lavoro sottopagato pur di incontrare qualcuno, il suo di lavoro, senza motivazioni sanitarie gli è stato negato, un lavoro sottopagato e anche inutile, perché si potrebbe rinunciare serenamente a farsi arrivare a casa la pizza per un paio di euro di sovrapprezzo, sappiatelo, neocolonialisti che non vi fate problemi a usufruire dei vari servizi quali JustEat, Foodora e via discorrendo, un lavoro che lo ha portato a una morte tragica, lì a spingere quell’auto d’epoca con la quale era solito arrivare nei club dove avrebbe suonato, ma che nello specifico era diventato il mezzo con cui portare a domicilio cene e pranzi.
Star lì a piangerlo, se non siete tra quanti sostengono la musica comprandola, pagando i biglietti dei concerti, sostenendo in prima persona gli artisti, ma soprattutto se siete tra quanti poi ricorrono ai rider per farsi portare da mangiare a casa, che fuori fa freddo, piove, non ho voglia di uscire, è qualcosa per cui dovreste vergognarvi.
Continuate pure a farlo, a costringere i rider a sottoporsi a sforzi inutili, sotto qualsiasi intemperia, così come continuerete a ascoltare musica solo su Spotify, ben sapendo che gli artisti non ci guadagnano un euro, e al tempo stesso continuate a commuovervi leggendo di storie come queste, bella coerenza. Spero solo che almeno la cena vi vada di traverso, e che nessuna nota sia mai capace di trasmettervi emozione alcuna.
Bellissimo articolo alla fine mi sono commosso.
Grazie!