Quei Bravi Ragazzi, il capolavoro di Scorsese che ha riscritto le regole del mafia movie

Un film che racconta con esattezza antropologica e stile survoltato la subcultura mafiosa. Che è il corrispettivo, perverso, di un modello sociale votato solo alla ricerca del successo. Un’opera seminale, a cui tutti hanno attinto

Quei Bravi Ragazzi

INTERAZIONI: 562

Che Quei Bravi Ragazzi (Goodfellas, 1990) sia un film realista, nello spirito se non propriamente nello stile sgargiante, lo conferma uno spettatore molto particolare del film, il boss Tommaso Buscetta. “Solo in quel film ho visto l’indifferenza per la morte altrui, per la morte del ‘nemico’ che è reale per Cosa Nostra. Vi ricordate quando i bravi ragazzi vanno a cena da mammà e mangiano salsicce con il cadavere di un uomo nel bagagliaio della macchina? O quando al bar John Pesci ride con un altro e poi all’improvviso dopo un brevissimo attimo di silenzio gli salta addosso e lo rimprovera duramente, con ira. Io so che quegli attimi esistono davvero. Sono pochi decimi di secondo in cui il mafioso decide il da farsi, valuta e condanna chi ha di fronte”. Come esempio opposto di falsificazione Buscetta cita invece Il Padrino, “perfetto com’è, tutto a latte e miele. Con quel baciamano al giovanotto diventato boss della famiglia che non ho mai visto nella realtà”.

In effetti, sebbene con qualche ragione un grande critico come Roger Ebert dica che “Quei Bravi Ragazzi è un racconto epico della portata de Il Padrino” – e lo è per come stabilisce le coordinate di un nuovo modo di raccontare le organizzazioni criminali con cui qualunque narratore ha dovuto fare i conti –, non potrebbero esistere due film più diversi. Dove Coppola punta all’approccio mitologizzante, ritraendo le vite sinistre e grandiose di personaggi “bigger than life” come il don Vito Corleone di Marlon Brando, enfatizzate da uno stile sontuoso da aria d’opera, Scorsese sceglie una dizione secca, brutale e selvaggia, con le vite qualunque non dei leader, ma dei manovali dell’organizzazione scandite al ritmo nervoso d’una colonna sonora rock onnipresente.

Partendo dalla storia vera del libro omonimo di Nicholas Pileggi, Quei Bravi Ragazzi segue le vicende, raccontate in prima persona in voice over, di Henry Hill (Ray Liotta), mezzo siciliano e mezzo irlandese – il quale quindi per ragioni di sangue è destinato a non poter mai diventare un boss –, che dall’adolescenza a New York negli anni Cinquanta fino all’età adulta negli Ottanta vive sempre incatenato al mito dei bravi ragazzi e della loro vita straordinaria. “Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster. Per me fare il gangster è sempre stato meglio che fare il presidente degli Stati Uniti”, dice.

Tra le due parti di questa affermazione Scorsese opera in realtà un salto temporale vertiginoso. Le prime parole vengono pronunciate alla fine di un prologo in cui l’Henry adulto sta guidando un’automobile insieme agli inseparabili “colleghi” Jimmy (Robert De Niro) e Tommy (Joe Pesci, che vinse l’Oscar). Auto nel cui portabagagli stanno trasportando il corpo di un uomo che credono morto e che invece sono costretti a finire con un’altra dose di violenza efferata – Henry si limita ad assistere i compagni. A quel punto il suo sguardo, comunque complice, si trasforma nel primissimo piano dell’occhio dell’Henry ragazzino, osservatore di quel mondo criminale da cui è rapito e in cui entra giovanissimo. Spiegando appunto allo spettatore che niente è paragonabile all’essere un mafioso, col rispetto, i soldi e i privilegi che ti dà il far parte dell’organizzazione. Anzi, della “famiglia”.

Quei Bravi Ragazzi è in questo senso un film di lineare essenzialità: la storia del protagonista è seguita lungo un tragitto di ascesa e declino i cui unici moventi sono la tonificante sensazione dell’appartenenza a una comunità coesa e il privilegio che questa affiliazione reca con sé. Non lontano da un altro film di Scorsese di qualche anno prima, Re Per Una Notte, Quei Bravi Ragazzi racconta una tipica storia di ambizione che segue le regole del capitale – nella sua forma ovviamente pervertita –, la ricerca del successo a tutti i costi per agguantare il proprio pezzo di sogno americano.

L’educazione alla vita di Henry Hill

Due gli elementi che emergono. Il primo riguarda la voglia di criminali di nuovo conio – sotto questo aspetto molto diversi dal riserbo moralistico dei vecchi padrini – di ostentare la ricchezza da arrivati, facendo frusciare mazzette di bigliettoni e accumulando abiti, case, arredi vistosamente lussuosi. Il secondo dato è la totale chiusura della comunità mafiosa, una subcultura che non ha letteralmente rapporti con l’esterno. A notarlo è Karen (Lorraine Bracco), la ragazza ebrea che sposa Henry, l’unico altro personaggio cui è concesso il privilegio della voice over. La quale in primo luogo ammette di essere “eccitata” dallo stile di vita del compagno, e poi sottolinea quel rituale fatto di pranzi, cene e cerimonie sempre rigorosamente collettive, frequentando solo altri bravi ragazzi. Nell’omogeneità culturale – e nella mancanza di confronto con qualsivoglia differente realtà – si smarrisce completamente il dato criminale alla base di quello stile di vita, che sembra invece assolutamente, e assurdamente, ovvio e naturale.

Scorsese sottolinea il meccanismo chiuso in sé stesso alla base dell’ideologia mafiosa attraverso un vertiginoso espediente stilistico – il film ha la capacità di filtrare il realismo dell’assunto narrativo attraverso un formalismo esasperato, veritiero sebbene corrisponda all’esatto contrario di un approccio documentaristico. È il celebre piano sequenza che segue Henry e Karen al loro vero primo appuntamento, in cui l’uomo seduce la donna mostrandogli il suo privilegio, facendola entrare al Copacabana non mettendosi in fila come i comuni mortali, ma accedendo da un sottoscala che passa attraverso le cucine e che alla fine, un saluto dopo l’altro, una mancia da venti dollari dopo l’altra, conduce i due nel cuore del locale più alla moda di New York, dove dal nulla si materializza un tavolo per la coppia.

Questa scena esplicita i sottotesti del film: certifica il successo di Henry, che a soli 21 anni venendo dai bassifondi ha conquistato il centro della scena; spiega anche però che quel trionfo esiste solo mantenendo il rapporto coi bassifondi – il passaggio attraverso il sottoscala – da cui Henry viene e soltanto tramite i quali, con l’estorsione e la violenza, si guadagna da vivere; la mancanza di tagli di montaggio sottolinea invece la natura ordinata di un universo criminale in cui tutto si tiene e rispetta regole precise e inderogabili, che non conoscono realtà ad esso esterne, un fuori campo da richiamare attraverso un’inquadratura che rompa l’omogeneità del piano sequenza. Quello dei bravi ragazzi è il mondo nella sua interezza, autosufficiente, compiuto e smagliante perché vincente. Non c’è null’altro che serva.

A questa sequenza si oppone il resto del film, col suo linguaggio visivo nervoso, fatto di jump cut, fermi immagine, movimenti di macchina e tagli di montaggio, che restituiscono la sostanza di cui è in realtà fatta quella esistenza apparentemente elegante e impeccabile. Da qui deriva la necessità di una messinscena della violenza restituita senza eufemismi, soprattutto attraverso il sadismo via via più incontrollato di Tommy, a mostrare l’altro lato, sempre sul punto di deragliare, dello stile di vita tossico, paranoico e animalesco dei bravi ragazzi.

La sequenza della improvvisa minaccia di Quei Bravi Ragazzi, citata dal boss Tommaso Buscetta

La scena citata da Buscetta ha un che di esemplare, col terzetto che, pur trasportando un cadavere, decide di fermarsi a cena dalla madre di Tommy. Contiene il principio dell’indifferenza, dell’agghiacciante e routinaria insensibilità al male dei protagonisti. E contiene anche un’indicazione essenziale per tutto il cinema criminale a venire, a partire da Tarantino, in cui, se appena si mette tra parentesi il punto di vista morale, si corre il rischio di mostrare la violenza e i gangster in una chiave unicamente parodistica, dove un’estetica pastiche disinvoltamente postmoderna racconta con gusto divertito le paradossali enormità di vite criminali che non mantengono più nulla di autentico e realistico.

È questo esattamente il passo che Scorsese e Quei Bravi Ragazzi non compiono mai: perché il regista è cresciuto in quel milieu italoamericano e non perde mai la lucidità e la concretezza della sua visione, che non trascolora mai nella fumettizzazione della violenza e resta radicato ai dati effettivi di quel mondo. Lo dimostra, esatto contraltare della sequenza del Copacabana, quella in cui un Henry ormai paranoico – e drogato – è ritratto lungo una sua giornata tipo, mentre cerca di piazzare delle armi, organizza il trasferimento di una partita di droga e insieme cucina un ragù per il fratello, mentre nel frattempo è convinto di essere pedinato da un elicottero.

La pentola in cui sobbolle il sugo è il correlativo di una sequenza survoltata, piena di canzoni che s’alternano senza soluzione di continuità, tagli di montaggio amfetaminici, con una temperatura che aumenta fino al punto in cui tutto, rovinosamente, esplode. Accadrà lo stesso anche in un’opera pure stilisticamente agli antipodi di trent’anni dopo, The Irishman. Un altro racconto capolavoro sulla mafia, in cui Martin Scorsese conferma la sua capacità di raccontare sì l’ambigua fascinazione del male, però sempre costringendolo in un arco narrativo che va dall’ascesa al fallimento, che mostra il redde rationem, implacabile, di vite inesorabilmente perdute. Uno stile in cui c’è spazio per il paradosso e persino per una sinistra comicità, che non si fa però mai, come in tanti epigoni, ammiccamento divertito.