“Che razza d’uomo fa una telefonata del genere?” si chiede The Irishman, l’americano di origini irlandesi Frank Sheeran (Robert De Niro), ormai vecchio, mentre si confessa a un prete nella casa di riposo in cui (soprav)vive malinconicamente. La telefonata cui si riferisce è quella fatta alla moglie di Jimmy Hoffa (Al Pacino), in ansia perché il marito è sparito da giorni. Lui le dà speranza e conforto. Il punto è che è stato Frank a ucciderlo, tradendo l’uomo cui doveva tutto, perché la mafia glielo ha ordinato.
The Irishman, l’ultimo è il più lungo dei film di Martin Scorsese, 210 minuti, prodotto da Netflix e per questo uscito solo pochissimi giorni in sala in versione originale sottotitolata – con uno strascico di polemiche al di qua e al di là dell’oceano – è anche quello che più ricorda Il Padrino di Francis Ford Coppola. C’è la stessa tensione alla saga e alla centralità del tempo che passa, tema non usuale in Scorsese, autore solitamente giovane e adrenalinico.
Qui scorrono quarant’anni di storia americana, dalla Seconda guerra mondiale a John Kennedy, dalla Baia dei Porci al caso Watergate, visti sempre attraverso la lente del microcosmo mafioso e del suo ruolo giocato in queste vicende. E c’è, soprattutto, il tema del tradimento, anche se non del vero e proprio senso di colpa, impossibile in un individuo pragmatico come Frank. Un uomo che ha imparato a uccidere in guerra e l’ha fatto anche dopo, al soldo della mafia, continuando a eseguire gli ordini assegnatigli senza porsi domande.
Michael Corleone ne Il Padrino uccide il fratello Fredo nascondendosi dietro il mantra del “gli affari sono affari” e giustifica le sue interminabili violenze dietro la necessità di difendere la famiglia. Allo stesso modo Frank mette a morte il suo mentore, l’ambiguo Jimmy Hoffa, potentissimo leader del sindacato degli autotrasportatori che “negli anni Cinquanta era famoso come Elvis e nei Sessanta come i Beatles”. E parlando con una delle figlie motiva il suo comportamento col bisogno di proteggere i suoi cari. “Da cosa?”, lei gli chiede, e Frank non ha una risposta decente.
Certo, Scorsese non ha lo stile tra operistico e melodrammatico di Coppola – cui pure ammicca, con l’accenno delle note del celebre Godfather Waltz – eppure The Irishman, che mantiene il suo caratteristico e mirabile incastro tra musiche, movimenti di macchina e stacchi di montaggio, ha un ritmo molto meno adrenalinico. Il racconto di mafia è virato su tinte luttuose, funebri.
Il narratore non è più lo spavaldo, giovane ed elettrizzato Ray Liotta di Quei Bravi Ragazzi. È un vecchio solo – “Sono tutti morti”, dice il poliziotto che gli chiede perché si ostini a non fare i nomi di colpevoli scomparsi da decenni –, che riattraversa la sua vita criminale, sicuramente senza rimorsi, ma con una forma di distanza interrogativa. E alla fine il bilancio esistenziale non può che essere negativo. Un uomo rimasto senza più la sua famiglia mafiosa. E nemmeno quella di sangue, con la moglie morta di cancro e una figlia che non vuole più parlargli.
Perciò, anche se The Irishman ripercorre la carriera “di successo” di Frank, dall’amicizia col primo protettore Russell Bufalino (un Joe Pesci straordinario per misura) a quella con Jimmy Hoffa (un Pacino giustamente istrionesco), il tono non ha nulla di galvanizzante, immerso in una luce spenta e mortale. Acquista senso allora il processo di ringiovanimento digitale cui sono stati sottoposti i volti dei protagonisti. I quali, appunto, sembrano vecchi anche da giovani, stanchi, immoti, consumati dal loro lato oscuro. Vengono in mente le parole del critico Pauline Kael sul Padrino Parte II: “È una nostra impressione o il viso di Michael Corleone sta cominciando a disfarsi?”.
The Irishman descrive la decomposizione di un mondo. Per questo all’apparire di ogni nuovo personaggio compare in sovrimpressione una didascalia che descrive come sarà ammazzato, a indicare, appunto, che sono tutti morti che camminano. Peciò si vede il dettaglio macabro della cremazione del corpo di Hoffa. E per questo la parte finale dedicata al Frank anziano è lunghissima e insistita, con dettagli grotteschi – l’acquisto della bara, il rifiuto di essere sotterrato perché “è così definitivo” – che suonano come stoccate malevole indirizzate a un mondo col quale Scorsese è giunto alla resa dei conti in un film che certo non esprime giudizi moralistici ma che, in questo diverso dall’epicizzante Padrino, non ha nulla di elegiaco, fatta salva la cristiana pietà per i defunti.