In balia dell’apatia. Se dovessi racchiudere in una sola singola frase l’essenza dei miei ultimi diciannove mesi, e sapete bene quanto fare utilizzo della sintesi mi risulti innaturale, potrei usare l’incipit di questo pezzo: in balia dell’apatia. Sembra quasi il titolo di una bossanova, e vedrete che, almeno a livello di immaginario, la bossanova ha qualcosa a che fare con quel che andrò a raccontare. Il fatto è che il trovarmi di colpo, io come chiunque altro, rinchiuso dentro le mura di casa, nel mio caso in buona compagnia con una famiglia numerosa, in assenza di rapporti tossici, va detto, ha contribuito a far sì che iniziassi letteralmente e metaforicamente a costruire una tana, quella dell’omonima sindrome, tirata in ballo spesso a sproposito, specie nel primo lock down, rendendo questi nuovi ritmi, lenti e ripetitivi, esattamente tutto l’opposto di quello cui ero per vocazione e scelta abituato, io che lavoro in smart working da almeno sedici anni ma che ho passato un numero impressionante del mio tempo in mezzo alla gente, fosse anche da remoto, in radio, in tv, al telefono, sui social, qualcosa in qualche modo di confortevole, la routine prima forzosa poi semplicemente e stancamente accettata in assenza di alternativa. Una tana che, come tutte le tane, almeno nella nostra fantasia, non so voi, ma io personalmente non è che abbia questa grande frequentazione di tane, calda, confortevole, soprattutto sicura, dove per sicura si intende priva di pericoli, lontana ogni forma di predatori, di insidie dettate dall’esterno, insomma, un luogo dove poter dormire sonni tranquilli. E dire che di dormire, parlo sempre per me, se ne è sempre parlato poco, una insonnia, quella sì, familiare e routinaria, figuriamoci nel bel mezzo di una pandemia, ma quello è il modo in cui in genere si definiscono i luoghi dove il riparo che ci viene offerto non presenta variabili rilevanti, dove si possono dormire sonni tranquilli. Così, al caldo della mia tana, della mia cuccia, circondato dalla mia famiglia e, perché no, anche dal mio talento, la scrittura compagna fedele, mai come in questi lunghissimi mesi, ho lasciato che l’apatia prendesse il posto della frenesia, l’assenza totale di input da quello che fino solo a pochi giorni prima dell’inizio della pandemia era il mio mondo, la musica e il mondo dello spettacolo, di colpi tenuti in coma farmacologico in attesa di una cura che non è ancora arrivata, lasciasse spazio a una sorta di immobilismo ascetico, una forma di contemplazione dell’immutabile, almeno quello sì incapace di sconvolgere ulteriormente i nostri bioritmi. L’apatia ha avuto il sopravvento, inizialmente in maniera impalpabile, nulla si poteva fare, normale non provare neanche a reagire, poi in maniera, parlo per me, quasi compiaciuta, come di chi esibisce certe cicatrici conquistate sul campo. Quando, cioè, si è trattato di riprendere timidamente a mettere il naso fuori di casa, e non parlo certo di andare a fare una passeggiata al parco, quelle non sono mancate, parlo di occasioni di lavoro, occasioni pubbliche di lavoro, ho tenuto una posizione di studio, guardinga. Del resto il massiccio utilizzo della rete, nel mentre, ha evidenziato quanto certi passaggi non fossero poi così necessari, zoom al posto di noiose riunioni in presenza, operazioni di un paio di minuti per connettersi al posto di lunghi spostamenti, perché mai avremmo dovuto lasciare che tutto questo venisse meno? Non ho ripreso a frequentare quegli ambiti che per anni erano stati il mio campo da gioco, complice il fatto che spesso e malvolentieri quegli ambiti non si sono riaperti, tutto è proseguito in sordina, da lontano, e quelle poche occasioni di incontro fisico che si sono presentate le ho schivate, giocandomi il jolly dell’orso, dell’outsider, di quello che preferisce stare appartato, lo preferivo anche in tempi non sospetti. Certo, l’estate, parlo dell’estate scorsa, ma il discorso è perfettamente applicabile anche a quella finita da poco, l’autunno/inverno/primavera 2020-2021 sono stati solo una estenuante riproposizione delle medesime istante del primo lock down, almeno nel mio settore e quindi nella mia vita, l’apatia, il tempo trascorso immancabilmente a casa a scrivere, le riunioni su zoom, anche il Festival di Sanremo su zoom, figuriamoci, l’estate, dicevo, le estati hanno presentato una lieve variazione sul tema, il poter passare più tempo all’aperto, vuoi per il bel clima, vuoi per le ferie, ha contribuito a spingermi a forzarmi a uscire, perché l’apatia si è spesso manifestata spesso nella spossatezza nel fare anche solo pochi passi, io che mi ero abituato a fare dieci chilometri a piedi ogni giorno, per questioni di salute fisica e mentale, prima gite fuoriporta, poi lo spostarmi nella mia terra natale, al mare, quindi andare in vacanza, seppur in luoghi dove fuori dalla pandemia probabilmente non sarei andato, gli amici visti con una certa frequenza, la televisione spenta e mai vista per almeno un paio di mesi di fila, ma consapevole che in quel caso era l’apatia a essere finita in coma farmacologico, in attesa dei primi freddi, del buio presto, del ritorno dell’autunno, nessun requiem da recitare in suo onore, nessun lutto da esibire al braccio.
Il mare, dicevo, anche solo l’approccio al mare, e a vostra insaputa sto parlando proprio di quanto dichiarato nel titolo di questo testo scritto, non fatevi ingannare dalla mano di smalto che ci ho passato sopra, anche solo l’approccio al mare attesta che la normalità non è mai davvero tornata, neanche temporaneamente. Un po’ come per gli abbracci e i baci, quelli che ci stiamo negando con amici e parenti da ormai un tempo troppo lungo, direi. Andare al mare è sempre stato parte della mia vita. Sono nato in un posto di mare, dove per tradizione si iniziava a andare a prendere il primo sole già a maggio, finendo spesso in autunno. Chiaramente con l’età adulta tutto questo è per me cambiato, vivo lontano, a Milano, ma il mare è rimasto una costante, ogni occasione buona per bagnarmici, per contemplarlo. Il non averlo visto per un lasso di tempo ai miei occhi infinito, come quello che è intercorso tra il mio ritorno a Milano a fine agosto 2020 e il mio lasciarmi per un po’ Milano alle spalle, a metà luglio 2021 mi è parso assurdo, neanche un salto a Sanremo, niente, sempre e solo Milano nella mia vita per quasi un anno intero. Non poterci andare con la naturalezza con cui ci sono sempre andato, però, è stato forse il torto più grande che mi sono visto di fronte, parlo di gesti, non certo di vita. Per andare al mare, infatti, le norme Covid sono piuttosto precise a riguardo, tocca prenotarsi, almeno dalle mie parti, sul Conero, spiagge piccole e molto frequentate. C’è una App, nei weekend e per tutto agosto, e a parte la App c’è anche la difficoltà di dover fare i conti con gli spazi comunque ristretti. Niente più improvvisate, quindi, ma una organizzazione affatto vicina allo spirito con cui in genere abbiamo sempre vissuto i nostri giorni del ritorno a casa. Che poi, diciamola tutta, casa è ormai da ventiquattro anni Milano, a chi vogliamo darla a intendere.
Sia come sia tutto è cambiato, almeno temporaneamente, l’idea di tornare presto a lasciarmi cullare dall’apatia neanche troppo fastidiosa, in fondo, si tratta solo di rivedere i nostri piani, di capire quale sia realmente la nostra comfort zone, di prendere nuovamente le misure con la vita.
Non voglio certo fare il filosofo pret a porter, figuriamoci, ma è evidente che se una qualche lezione quello che stiamo vivendo ce la sta dando, a parte la questione del risolvere una volta per tutte il nostro rapporto irrisolto col Pianeta Terra, è che tocca essere un po’ meno schematici, imparare a vivere un po’ più alla giornata, lasciandosi andare.
Perché vi sto raccontando tutto questo, oggi, vi starete chiedendo, a ragione. Perché ho ascoltato, in realtà l’ho fatto tempo fa, appena prima che uscisse, il nuovo singolo di Simona Molinari, e tutto questo mi si è presentato davanti una parola dietro l’altra, con quella precisione da elenchi dafoglio Excell che solitamente è raro trovare in natura, men che meno nell’arte.
Davanti al mare, questo il titolo del suo nuovo brano della cantautrice laquilana, è una canzone che allestisce un parallelo tra la cantante e il mare, parallelo che, nonostante le evidenti differenze a livello estetico e anche di attitudine, credo, faccio mio senza nessun tipo di difficoltà, quell’essere “segreto e trasparente”, certo, ma anche la necessità di “naufragare”, di imparare a lasciarsi andare, appunto, il tutto su un paesaggio di “marinaro” fatto coralli nascosti nelle profondità, di case costruite sulla roccia e non castelli con la sabbia, di evangelica memoria, di saggi consigli sul tenersi lontani dal largo quando la corrente è forte, come del perdere lo sguardo oltre l’orizzonte, cullati dalla pace che solo il mare sa darci, almeno quando non è arrabbiato.
Una canzone lieve, questa, distante, se non addirittura opposta di quel che solitamente Simona Molinari ci ha insegnato a associare al suo nome, alla sua splendida voce, toh, anche alla sua immagine, immagine che attraversa il video che accompagna la canzone in un elegantissimo abito lungo in rosso, i capelli raccolti, le mani impegnate a danzare sulle note di questa ballad, fino a un passaggio, al tramonto, nel quale la nostra, mai così nostra, e Dio solo sa da quanto sto evocando il suo ritorno, si lascia scivolare sul pelo dell’acqua, come una Ofelia mediterranea, altrettanto bella ma ancora viva.
Sotto la produzione quantomai azzeccata di Fabio Ilaqua, già al fianco di Gabbani come di Red Canzian, Simona Molinari abbandona incosciente la sua comfort zone, quella rassicurante, nel suo caso lo swing, il jazz, per andare a esporsi con un brano che ce la rende un po’ meno segreta e un po’ più trasparente. Non fosse coperta da quell’abito rosso, sorta di sofisticata versione della PJ Harvey di To Bring You My Love, anch’essa immersa come Ofelia in acque tranquille, dopo quelle decisamente meno rassicuranti nelle quali era immersa in Dry, lì senza abiti rossi, Polly Jane, ecco, potremmo dire che come la PJ Harvey di Dry, della copertina di Dry, Simona Molinari con Davanti al mare si mette a nudo, fragile in apparenza, in realtà solida come la roccia su cui, dice, ha imparato a costruire casa.
Saperla lì, fuori dalla sua comfort zone, anche se nel farlo ci canta del mare, anche per lei come per me qualcosa di connaturato e familiare, mi rasserena, succede sempre quando si è all’estero, in terre magari lontanissime, e si riconosce la parlata di un nostro connazionale, ci si sorride come se ci si conoscesse da sempre.
Mi turba, certo, ma l’arte deve essere assolutamente conturbante, accendere la passione, far scorrere il sangue nelle vene, un utilizzo della voce su suoni diversi dal solito, voce che in effetti appare differente dal solito, altrettanto bella del solito, certo, e soprattutto altrettanto capace di trasmettere emozioni, di creare empatia con l’ascoltatore.
Mi rasserena ancora di più sapere che Davanti al mare è, spero a brevissimo, l’anticipazione di un nuovo lavoro, tutto prodotto da Ilaqua, etichetta BMG, da sempre molto attenta nel mettere insieme le squadre di lavoro, atteso credo davvero troppo a lungo, perché se c’è una cosa che veramente può spingermi a uscire dall’apatia, e come me molti altri, è la bellezza, a Dio quanta bellezza c’è nella musica e nella voce di Simona Molinari.