Il commento più insulso sul blocco di Facebook e social connessi, anzi disconnessi, l’ha mandato il Codacons, questa entità di cui nessuno ha capito la funzione a parte litigare con Fedez: “Cittadini liberati dalla dittatura influencer”. Naturalmente per dirlo hanno usato tutti i social, ma il presidente del Codacons è un maturo, anagraficamente, signore che si fa delle foto in mutande, da influencer fuori quota, tentando di esistere nell’universo pattumiera. La verità è che, piaccia o non piaccia, di questi infernali strumenti abbiamo bisogno. Un definitivo bisogno. Se io voglio mandare questo pezzo, whatsapp mi deve funzionare; se voglio fare sapere che ho novità da proporre, non ho altri mezzi che i social; se ho una bottega, una attività, non posso rinunciare alle estensioni di Facebook, Instagram eccetera. Del resto, che sarebbe finita così l’aveva capito già Leonardo da Vinci cinquecento anni fa, immaginando macchine che avrebbero veicolato immagini, parole, pensieri per tutto il globo senza por tempo in mezzo.
Poi, certo, chi inventa la barca inventa anche il naufragio e qui di naufragi siamo pieni. La malapianta dell’uomo resiste perché sa adattarsi a qualsiasi situazione, liberando puntualmente il peggio. Ma è davvero tutta colpa dell’uomo, della sua umanità fragile e tutto sommato ingenua? È solo sua responsabilità se subisce i social come prima la televisione, prima ancora l’automobile, su, su a ritroso nella sua storia di peccatore biblico? La possibilità di esistere nell’universo, sia pure in proiezione, è bella ed è comoda, informarsi, comunicare, giocare, creare sono tentazioni irresistibili e limitarsi a constatare che ne facciamo un uso mediocre vuol dire restare all’anno zero. Anche in questa prospettiva, il prato basso degli utenti-consumatori lo puoi maledire fin che ti pare, ma se leggi uno dei guru pentiti della Rete, Jaron Lanier, ci trovi l’ammissione che il Web poteva venire organizzato in cento modi diversi ma i dottor Stranamore hanno scelto quello che più conveniva a loro, senza scrupolo alcuno per le conseguenze collettive. Anche qui niente di nuovo, è lo strutturalismo funzionale di Luhmann, la teoria dei sistemi sociali che, in due parole, dice: adottata una soluzione in una raggiera di infinità possibili, quella soluzione cancella tutte le altre. Almeno fino a nuovo ordine.
Aspettarsi che gli Stranamore rinsaviscano, che siano coerenti con le loro fandonie progressiste è patetico e non lo è di meno pensare che un altro mondo sia possibile, che una società globale di poveri cristi tramortiti da mille emergenze si metta d’impegno per rivoluzionare il suo modo di utilizzare quanto la tecnologia forsennata le propone. Se mai, qui si può abbozzare una riflessione marginale e cioè che, fin dagli albori di Internet, il mercato scatena senza tregua soluzioni e dispositivi in anticipo rispetto alla comprensione possibile; che la loro smisurata potenza è troppo anticipata, troppo complessa se paragonata all’utilizzo. Noi poveri umani fin da subito abbiamo giocato con bombe a mano se non atomiche. Non siamo mai stati in grado di cogliere la portata di un nuovo marchingegno, del quale abbiamo fatto l’uso più elementare e più immediato. Quando arriviamo a ricostruire, per sommi capi, l’effettiva dimensione di ciò che abbiamo tra le mani, arriva un sostituto, ancora più complicato, ancora più sconfinato, che ci fa ripiombare nella caverna. Siamo schiavi delle nostre estensioni, di una tecnologia che ci anticipa, ci sovrasta, ci travolge. Faccenda un po’ più complessa della “dittatura degli influencer”.
Questo è precisamente quanto va sostenendo Frances Haugen, ingegnere informatico già per Facebook, e lo sostiene addirittura davanti al Congresso americano. La scienziata tecnologica, oggi pentita, racconta che la galassia di Zuckerberg ha costantemente trascurato i profili di sicurezza e di rispetto per i cittadini – utilizzatori – clienti, in luogo del profitto forsennato; e anche questa, volendo, è la scoperta dell’acqua calda; vale come conferma di qualcosa che si è sempre intuito, ma una conferma pesante. Laddove il profitto si traduce in censura, manipolazione, distorsione delle informazioni, condizionamento, pubblicità surrettizia, incisione della mente. Haugen spinge su un esempio, il modo devastante di Instagram di invadere la psiche delle adolescenti, indotte a calare di peso fino a superare il limite dell’anoressia o a modificare il loro aspetto ricorrendo alla chirurgia estetica senza alcun motivo e in età scolare e perfino prescolare. Assecondati dai genitori, è chiaro, ma a questo punto la centrifuga del cervello è trasversale, attraversa le generazioni.
Haugen parla dei network da cui proviene, ma non cita il caso, anche più pericoloso perché più incisivo, di TikTok: qui l’impatto è totale, ma dopo i primi casi di suicidio indotto, all’inizio dell’estate, la app cinese ha reagito investendo miliardi in pubblicità e assoldando testimonial famosi con l’effetto di fornire una immagine rassicurante, positiva, rilanciata da tutti i media possibili compresi i telegiornali delle reti pubbliche di tutti i Paesi. Di suicidi via TikTok non si è parlato più. Una situazione a cerchio dove vince sempre il banco, o, se si preferisce, in cui qualcuno deve vincere a fronte della sconfitta di moltissimi. Eppure da questi viluppi non usciremo, semplicemente perché non possiamo uscire; perché i vantaggi, immediati o apparenti, bilanciano ampiamente i pericoli e gli effetti negativi. Il nostro destino sociale è di attendere forme e strutture sempre più perfezionate e pervasive, e non potremo farci granché: negarsele o negarle ai figli sa molto di impotenza, ricorda quelli che proibiscono la televisione in casa, controllano i laptop, e così ottengono solo di incrementare la dipendenza.
C’è poi un altro problema, non meno grave, non meno imponente. Dal blocco di sei ore della sua galassia social, pare che Zuckerberg abbia subito una perdita secca di 6 miliardi. Un miliardo all’ora. Il tutto per banali accidenti legati all’aggiornamento dei router. L’aspetto grottesco, è che il blocco ha impedito la rilevazione tempestiva, con conseguente allarme, del guasto: un accidente che alimentava se stesso. Oggi noi tutti siamo sulla soglia della “Internet intelligente”, quella che farà funzionare da sola automobili, elettrodomestici, abitazioni, sistemi complessi quali forniture di energia, di risorse, di beni di consumo, il tutto agevolato, ovvero imposto, dall’avvento del 5G che però sarà transitorio perchè pare che il 6G sia già maturo in prossima attesa del 7G. Una connessione senza scampo, senza punti morti, senza possibilità di nascondersi; e poi basta un inciampo sui router a bloccare tutto? Ancora una volta, la tecnologia arriva troppo presto, e troppo forte, addosso alle nostre vite. Immaginiamoci un blocco che lascia a metà una diga, che abbandona il traffico al suo destino, che paralizza un sistema di difesa militare, che interrompe una operazione a cuore aperto da remoto: immaginiamocelo. Possiamo. Non è distopia, è un futuro prossimo che divora se stesso. Come uscirne non lo sappiamo, ma la sensazione, terrificante, è che non lo sappiano neanche quelli che il futuro lo stanno apparecchiando. L’unica cosa che non cambia è quella vecchia come il mondo: prima il profitto, poi tutto il resto. Se avanza tempo e modo, se il naufragio non diventa apocalisse.