Quasi contemporaneamente al suo passaggio in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 78, dove potrebbe ottenere un premio importante – magari la Coppa Volpi per l’Eduardo Scarpetta di un notevole Toni Servillo – arriva subito in sala, il 9 settembre Qui Rido Io, nono lungometraggio di Mario Martone. Che qui sceglie di muoversi lungo un crocevia nel quale si intersecano tutti i temi che più gli appartengono, dal gioco di specchi tra i prediletti cinema e teatro allo scandaglio sulla materna Napoli vista attraverso la lente della storia, come era stato anche nel precedente dittico de Il Giovane Favoloso e Capri-Revolution, anch’essi costruiti intorno a biografie d’artista.
Eduardo Scarpetta è il grande drammaturgo partenopeo della rivoluzione, o più moderatamente della riforma, che a cavallo tra Otto e Novecento aveva compiuto il parricidio di Pulcinella, la maschera popolare condotta alla sua massima espressione da Antonio Petito, da lui sostituito con la “semi-maschera”, come la definì Salvatore Di Giacomo, di Felice Sciosciammocca, figura che segnava la transizione a un modello di rappresentazione diverso, che s’avvantaggiava, napoletanizzandolo, del repertorio francese della pochade e del vaudeville, e puntando a storie sempre comiche in cui il nuovo pubblico borghese degli anni della Belle Époque potesse immedesimarsi.
Quando Scarpetta in Qui Rido Io – il titolo è la frase che fece apporre sulle mura della sua bella villa signorile sulla collina del Vomero – afferma che “la mia forza è il pubblico”, non si riferisce solo al fatto che gli spettatori riempiano i teatri per vedere le sue commedie, ma anche e soprattutto alla sua capacità di sintonizzarsi sul loro gusto, persino di anticiparlo ed indirizzarlo. In questo senso, la scelta di Martone di non concentrarsi sul periodo entusiasmante dell’affermazione e della creazione del suo proverbiale personaggio, che risale agli anni Settanta dell’Ottocento, ma sul primo decennio del nuovo secolo, quando la sua stella lentamente s’appassisce e sfoca, è legata alla volontà di raccontare il progressivo allargarsi della distanza tra un uomo e il suo tempo. Un uomo che ha dominato la sua epoca finendo, fatalmente, per esserne superato.
Anche per questo il “viaggio sentimentale”, cosi come lo definisce nei titoli di coda Martone, tra le canzoni napoletane da lui selezionate per la colonna sonora, è singolarmente fuori sincrono con l’epoca narrata, pieno di brani cronologicamente successivi (come Dduie Paravise, del 1928, Indifferentemente del 1963, Carmela addirittura del 1976) e comunque scegliendo versioni di molto posteriori, interpretate da Sergio Bruni o Roberto Murolo.
Insomma il suono, e sappiamo quanto la musica sia un fattore determinante nella definizione dell’identità e del carattere napoletano, pur nella sua suadente bellezza, crea un continuo stridore con la storia che ci si squaderna davanti agli occhi, la quale invece sotto il profilo delle scenografie e dei costumi cerca una rispondenza filologica agli anni narrati. Fuori sincrono sono anche le immagini antecedenti dei fratelli Lumière con cui si apre Qui Rido Io e quelle di Eduardo De Filippo, figlio naturale di Scarpetta, ritratto in fotografie dell’età matura.
Proprio la paternità costituisce un altro dei temi portanti di Qui Rido Io, con l’intricata famiglia allargata ed endogamica del padre padrone Scarpetta. Il quale ebbe figli dalla moglie Rosa (Maria Nazionale) – tra cui il ribelle Vincenzo (Eduardo Scarpetta, stesso nome del trisavolo di questa interminabile dinastia artistica) –, dalla di lei nipote Luisa (Cristiana Dell’Anna) madre dei tre De Filippo – Titina Eduardo e Peppino (con quest’ultimo tenuto lungamente a balia, cosa di cui soffrì moltissimo, al punto da scrivere un’amara biografia, Una Famiglia Difficile) –, dalla sorellastra di Rosa, Anna (Chiara Baffi), madre tra gli altri del poeta Ernesto Murolo.
Molti tra questi furono figli non legalmente riconosciuti. Col che una scena di Miseria e Nobiltà, il testo più celebre di Eduardo Scarpetta, diventa lo specchio attraverso il quale il tema della paternità negata esplode, messa dal suo autore in commedia, e però vissuta come tragedia da parte di familiari e figli. Ai quali Scarpetta è in grado di consegnare solo l’eredità del teatro, per mezzo del palcoscenico sul quale debuttare giovanissimi – sempre col personaggio del piccolo Peppeniello, interpretato persino da Titina – quale unica forma attraverso cui attestare la relazione di consanguineità e certificare un passaggio di consegne. Sempre però nel nome di Sciosciammocca, la maschera inaggirabile, patrimonio, orizzonte e destino obbligatorio per tutti i discendenti.
Ma come si muove la storia, così si muove il teatro e così i figli, che cercano una loro autonomia espressiva ed emotiva. Ed è singolare che proprio Eduardo Scarpetta, capace di rinnovare la scena napoletana e di essere al passo delle novità – l’acquisto del primo frigorifero, status symbol di cui va orgogliosissimo – non sappia muoversi davvero in sintonia con i tempi e resti fossilizzato sul quel passato che ineluttabilmente sarà costretto a incarnare. Ritrovando idealmente su di un palcoscenico la maschera irrigidita del defunto Pulcinella, che lui ha idealmente soppresso, e che ha il suo stesso volto, anch’esso sul punto di svanire – un simbolo presago della fine è la corona di bronzo di sommo malaugurio regalatagli nientemeno che da Gor’kij.
L’unica forma di resistenza al tramonto di Qui Rido Io è demandata alla tellurica energia creativa dell’artista, che lo spinge ad immaginare il sacrilegio massimo della parodia della Figlia di Iorio del vate Gabriele D’Annunzio. Che lui sottopone, dopo Pulcinella, a un altro omicidio simbolico, contro il quale insorge tutta la buona società delle lettere, da Di Giacomo (Roberto De Francesco) a Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Libero Bovio, difensori non solo di una certa idea di letteratura, ma della gerarchia e del valore intoccabile dei padri. Padri contro cui Eduardo Scarpetta è sempre insorto. Destinato però, come loro, a impersonare il medesimo ruolo e, come tutti, soccombere. Per questo l’ultima immagine del film è dell’altro Eduardo.