The Sparks Brothers, Edgar Wright racconta la storia della band di culto dei fratelli Mael

Per tre giorni in sala dal 30 agosto il documentario sul leggendario e misconosciuto complesso pop. Autore di script e musiche di “Annette” di Leos Carax. Testimonianze di Duran Duran, Franz Ferdinand, Beck, Flea

The Sparks Brothers

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Alla fine, dopo decenni di attesa, il cerchio tra la musica che è la loro vita e il cinema che è il secondo grande amore si è finalmente chiuso per The Sparks. Il duo dei fratelli Ron e Russell Mael, dopo due progetti accarezzati ma non realizzati in altri tempi con Jacques Tati e Tim Burton, in quest’ultimo anno ha collaborato con Leos Carax per Annette, passato a Cannes 2021, per il quale ha firmato sceneggiatura e colonna sonora. Contemporaneamente The Sparks sono al centro dell’omaggio di un loro grande fan, il regista Edgar Wright, che ha voluto celebrarli ripercorrendone l’intera carriera in un documentario ora nei cinema italiani per un evento speciale dal 30 agosto al primo settembre.

Edgar Wright – di cui tra pochi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia verrà presentato l’ultimo film, Ultima Notte a Soho, girato in una swinging London anni Sessanta multicolore e musicale, tanto per restare in tema – in The Sparks Brothers ha raccolto moltissime testimonianze, di attori come Jason Schwartzman e Mike Meyers, di artisti che hanno lavorato con il duo in vari momenti della loro lunghissima e multiforme carriera, da Giorgio Moroder ai Franz Ferdinand, più altri come Nick Rhodes e John Taylor dei Duran Duran. Ci sono però anche le dichiarazioni di insospettabili come Thurston Moore dei Sonic Youth o Flea dei Red Hot Chili Peppers, musicisti decisamente rock che sembrano quanto di più lontano dallo stile synth-pop degli Sparks.

In effetti una delle domande fondamentali del documentario è proprio questa: che tipo di musica fanno The Sparks? I quali di loro già scenograficamente sono una coppia che si fa notare. Da un lato Russell, il “bello” della band, esagitato frontman con voce in falsetto; dall’altro Ron, compositore dei brani, tastierista allampanato apatico e immobile, a parte un ghigno mefistofelico con sguardo in tralice reso più inquietante da baffetti sinistramente riconoscibili. L’aneddoto diventato leggendario è quello secondo cui, vedendoli nella loro prima esibizione televisiva inglese a Top Of The Pops col loro hit This Town Is not Big Enough for Both of Us, John Lennon avrebbe telefonato a Ringo Starr dicendogli sbigottito che c’era Marc Bolan (il leader del gruppo glam-rock dei T. Rex) che stava suonando in tv con Adolf Hitler.

Qual è dunque lo stile dei The Sparks? Per i loro primi dischi di una carriera cominciata nel 1972 – con una discografia che conta 25 album – un critico musicale informato come Piero Scaruffi parla di, “un music-hall nevrotico e futurista suggestionato dall’art-rock e dal glitter-rock inglesi”, cosa che li ha resi, anche per la cura visuale delle loro esibizioni, degli antesignani della stagione del glam. Negli anni lo stile è andato mutando, irrobustendo il versante rock e poi, incrociando il producer Giorgio Moroder, creando pezzi disco music da classifica (N. 1 In Heaven), seguiti dal synth-pop e la new wave degli anni Ottanta, fino a ulteriori cambiamenti attraverso i decenni.

In questa continua metamorfosi, però, i fratelli Mael sono restati sempre fedeli a sé stessi, non dando mai l’idea di assecondare supinamente le mode, semmai anticipandole o comunque adattandole con naturalezza alla loro camaleontica e imperscrutabile identità. Per esempio Edgar Wright, che compare anche come testimone dichiaratamente di parte, dice che “avevano un’aria hypster già nel 1979”, Thurston Moore parla di filosofia quasi punk, e Beck, cogliendo nel segno, dichiara che “quando li vedevo da ragazzo in tv mi sembravano venire da un altro mondo”. Che è proprio la sensazione che The Sparks consegnano ancora oggi, con la loro aria immutabile da freak gentili e un po’ fuori sincrono rispetto alla realtà. Al punto che diventa difficile credere che il duo sia originario di Los Angeles, vista la chiara influenza nel loro stile dei Beatles e, attraverso di essi, di tutta la musica britannica anche precedente – il “miglior gruppo inglese mai nato in America”, dice uno dei testimoni.

Edgar Wright con The Sparks Brothers ha composto un documentario partecipe, che nel fluido montaggio di materiali d’archivio e testimonianze di oggi, girate queste ultime in bianco e nero, per far risaltare ancor più la modernità senza tempo, avanguardistica di esibizioni e video del duo, racconta una carriera che si estende lungo ben cinque decenni. Emergono nette la natura e la filosofia bizzarra di questa sotterranea band di culto che non poteva – nonostante ripetuti momenti di notevole successo in mezza Europa – che restare tale, in virtù del suo approccio obliquo alla musica.

Lo spiega bene Ron quando parla della sua passione per i registi della Nouvelle Vague e Godard in particolare, con quel modo di “restare leggermente a lato del cinema nell’esatto momento in cui facevano del cinema”. Che è la perfetta definizione dell’approccio alla musica degli Sparks, con testi apparentemente naïf, invece attraversati da un sottile spirito postmoderno, per la capacità di decostruire dall’interno le retoriche del pop, con un approccio ironico e autoironico assai consapevole e molto attento alla manipolazione dei linguaggi, sia musicali che visivi, dai video alle copertine degli album.

Una consapevolezza palese anche in Annette, che comincia da una sequenza che fa da cornice in cui i protagonisti, gli attori, il regista Carax, gli stessi Sparks presentano il film agli spettatori in una canzone che parla del budget del film, della storia, chiedendo persino di aver l’accortezza di chiudere le porte della sala cinematografica perché lo spettacolo sta per cominciare. Far cinema, e musica, restandogli accanto. È lo stile The Sparks che, con gran divertimento, racconta Edgar Wright in questo affettuoso documentario.