Qualora sussistessero ancora dubbi, a certificare la statura di classico de L’Uomo Dei Sogni (Field Of Dreams, 1989), il film di Phil Alden Robinson con Kevin Costner, è stata solo un paio di settimane fa la partita di campionato della Major League di baseball tra i New York Yankees e i Chicago White Sox giocata sul campo che rappresentò il set su cui fu girato il film. Un campo di baseball ricavato in una fattoria nello stato dell’Iowa che doveva servire solo da location per le riprese, e che invece poi è rimasto lì, attrazione turistica e testimonianza imperitura di un’opera che ha superato la prova del tempo.
Per quei pochi che non lo conoscessero, L’Uomo Dei Sogni, tratto dal romanzo di W.P. Kinsella Shoeless Joe, racconta la storia dalle venature fantastiche di Ray Kinsella (Costner) che, dopo i turbolenti e speranzosi anni Sessanta dei diritti civili e dell’amore libero, s’è adattato a una vita tranquilla, improvvisandosi agricoltore in Iowa insieme alla moglie Annie (Amy Madigan). Un giorno, nel campo di granturco, con piante talmente alte e rigogliose da sovrastarlo completamente, sente una misteriosa voce che gli dice “Se lo costruisci, lui tornerà”.
Allora Ray sacrifica una parte del raccolto per mettere in piedi un campo di baseball con tanto di riflettori. E un giorno, effettivamente, dai campi che circondano il diamante compare nientemeno che Shoeless Joe Jackson (Ray Liotta), e dopo di lui gli altri sette componenti dei Chicago White Sox che nel 1919 vennero squalificati a vita per essersi venduti una partita nelle World Series (storia raccontata anche nel bel film di John Sayles, Otto Uomini Fuori, 1988).
Inutile dire che quegli atleti sono passati a miglior vita da decenni. Sono dei fantasmi, o qualcosa del genere, che solo Ray, la moglie e la piccola figlia Karin sono in grado di vedere, mentre nella comunità del midwest in cui vivono tutti cominciano a prenderli per matti. Quel miracolo però è solo il primo di una serie. La voce continua a parlare a Ray, che coinvolge nella sua avventura uno scrittore simbolo degli anni Sessanta autoreclusosi da decenni, Terence Mann (James Earl Jones), personaggio ispirato a un altro mito americano, J.D. Salinger – nel romanzo di Kinsella compariva direttamente lui, ma la produzione, per evitare complicazioni legali, preferì una soluzione di fantasia. Da lì nasceranno altri incontri, tra cui il medico Moonlight Graham (Burt Lancaster) – pure lui defunto da un pezzo – che da ragazzo aveva giocato una sola fallimentare partita nella Major League.
L’Uomo Dei Sogni si inserisce nella solida linea del cinema americano fantastico – che a sua volta rimanda alla tradizione della ghost story della letteratura statunitense inaugurata nell’Ottocento da Washington Irving –, esplicitamente citata con l’immancabile tv che trasmette Harvey, il film del 1950 in cui James Stewart ha per amico un coniglio invisibile alto due metri (Robinson avrebbe voluto proprio Stewart per la parte del medico, ripiegando poi, diciamo così, su Burt Lancaster). Ray Kinsella è un uomo di quella stirpe, un autentico sognatore contro ogni logica, anche economica – la perdita di una fetta consistente del raccolto rischia di mandare sul lastrico la sua fattoria.
- Costner, Madigan, Hoffmann, Liotta, Busfield, Jones, Lancaster, Whaley...
Il film consiste in fondo di una sola cellula narrativa continuamente reiterata: ogni volta che Ray raggiunge un obiettivo, la voce lo rintuzza sollecitandolo verso altre missioni apparentemente sempre più insensate (a un certo punto gli dice, sempre enigmatica, “Lenisci il suo dolore”. A chi si riferisce?). Ed è un dispositivo di racconto per certi versi piuttosto didascalico, col suo messaggio enfatico che inneggia alla follia visionaria di ci crede nei sogni, nei sentimenti e nella pura intuizione. Ma, proprio per questo, è più saggia del piccolo calcolo meschino d’una vita senza utopia né aspirazioni, confinata nella cornice asfissiante d’un buon senso tranquillizzante, calcolatore e bigotto – come i compaesani di scarse vedute di Ray.
Uno degli elementi di forza de L’Uomo Dei Sogni sta proprio nel suo alzare spudoratamente la posta, spingendo lo spettatore ad arrendersi alla totale sospensione dell’incredulità e a lasciarsi trasportare dalla storia fiabesca del magico campo di baseball in cui tutto può accadere (“Questo è il Paradiso?”, chiede Shoeless Joe). Eppure la storia, a guardarla più attentamente, è più articolata di quanto il messaggio confortante del film potrebbe far credere.
L’Uomo Dei Sogni, infatti, parte con un montaggio di fotografie e filmini casalinghi e la voice over di Ray che racconta le vicende della sua famiglia. Prima suo padre, combattente nella prima guerra mondiale, ex giocatore di baseball fallito che, rimasto subito vedovo, s’è adattato a qualunque lavoro per crescere da solo il figlio. Il quale, appena possibile, ha abbandonato casa, è andato a studiare a Berkeley vivendo fino in fondo l’atmosfera controculturale degli anni Sessanta (“Ho cercato di farmi piacere la musica col sitar”, dice ironicamente) e poi ha messo la testa a posto.
L’Uomo Dei Sogni, insomma, non è solo la storia di un uomo che ha il coraggio di lasciarsi andare alla propria ispirazione (“Fino a quando non ho sentito la voce, non avevo fatto niente di folle nella mia vita”). Racconta lo spirito americano, parlando di tradizione, valori, di padri e figli tra i quali la distanza è talmente siderale che solo il comune amore per il baseball è in grado di attenuarla.
Da un lato, il film fa il panegirico di una sorta di età dell’oro, dei vecchi tempi in cui tutto era più ingenuo, semplice e migliore. Quando Ray incontra Moonlight Graham da giovane – sì, succede anche questo –, il ragazzo gli parla delle squadre di baseball dgeli anni Dieci come di famiglie che si prendono cura paternamente dei loro giocatori. È un mondo completamente diverso – più idealizzato che reale –, al quale in qualche modo il progetto assurdo di costruire il campo da baseball rimanda. Da questo punto di vista L’Uomo Dei Sogni mostra un suo lato conservatore e tradizionalista, col suo regressivo ritorno alla presunta infanzia edenica del paese.
Ma cnon c’è solo quello. Perché l’America è anche la nazione dello spirito utopico degli anni Sessanta, in cui sono cresciute persone come Annie. La quale, quando i bravi compaesani vorrebbero mettere all’indice i romanzi pacifisti di Terence Mann, fa il diavolo a quattro ricordando loro quali sono i valori su cui si basa la costituzione americana (“Chi è che vuole bruciare il libri?”, chiede provocatoria).Ancora una volta, gli Stati Uniti si dimostrano un paese più complesso di quella immagine a tinte nette che talvolta amiamo rappresentarci. E così sono anche i film come L’Uomo Dei Sogni, che li raccontano, in bilico tra il tradizionalismo dei padri e le istanze libertarie dei figli che, talvolta, trovano il coraggio di ascoltare la voce dell’anima più autentica del paese. Anche se sembra apparentemente provenire dal nulla.
Pure l’immagine rasserenante del baseball quale collante sentimentale tra le generazioni è più contraddittoria di quanto sembri. Ray inizialmente ricostruisce il campo per consentire di tornare a giocare a un gruppo di atleti che, vendendosi, hanno rotto per sempre l’illusione di pulizia di uno sport che costituisce un simbolo e una metafora dell’identità americana. E dunque la perdita dell’innocenza riguarda tanto il baseball che il paese. Nel gesto di quei giocatori – che però, va detto, nel film non parlano mai di corruzione – si infransero probabilmente i sogni del padre di Ray, riverberandosi anche sul modo di essere del figlio.
Perciò L’Uomo Dei Sogni è qualcosa di più di un peana trasparente ai valori americani. È un ritratto che aggiunge all’ottimismo messianico di fondo un sapore agrodolce. Che celebra sì gli anticorpi di un paese dalla straordinaria capacità reattiva e con una fede istintiva nel suo saper sempre ritrovare la retta via e rigenerare la propria innocenza. Il film però mantiene anche la consapevolezza di quelle cadute, delle colpe, dei conflitti che hanno caratterizzato la storia della nazione. Quei conflitti che hanno condotto anche alla drammatica frattura tra le generazioni, tra padri e figli, che solo i folli e i visionari che credono nei miracoli possono sanare.