Free Guy – Eroe Per Gioco, un Truman Show (addomesticato) per i nostri tempi

Ryan Reynolds è un bancario che scopre di essere il personaggio non giocante di un videogioco. Targata Disney, una riflessione sulla crisi di realtà in un mondo riplasmato dalla mutazione digitale. Dall’11 agosto in sala

Free Guy – Eroe Per Gioco

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In Free Guy – Eroe Per Gioco, il protagonista Guy (Ryan Reynolds) è un pacioso cassiere di banca. Veste sempre allo stesso modo, fa sempre le stesse cose, felice del suo ripetitivo tran tran, sebbene attorno a lui il luogo in cui abita, Free City, sia teatro di violenze quotidiane, cui non fa nemmeno più caso. Persino quando la banca in cui lavora viene rapinata, cosa che accade più volte al giorno, lui vive tutto con indifferenza, s’accuccia sul pavimento e si mette a chiacchierare del più e del meno con la guardia giurata Buddy (Lil Rel Howery; la sequenza, curiosamente, riprende senza saperlo la gag d’un vecchio film con Paolo Villaggio, Rag. Arturo De Fanti, Bancario Precario).

La routine di Guy si spezza quando incontra l’affascinante Molotov Girl (Jodie Comer) la quale, come gli individui eccezionali cui tutto è permesso, indossa degli occhiali da sole. Attratto dalla ragazza, decide che è giunto il momento di diventare anche lui uno con gli occhiali da sole. Però a modo suo, facendo leva non sulla violenza bensì su un eroismo spericolato quanto positivo. Nell’avventura alla conquista di una donna (e di sé stesso), scopre la verità: Free City non è la realtà, ma un videogioco di cui lui è un personaggio non giocante, ossia una di quelle figurine insignificanti che fanno da sfondo alle imprese dei protagonisti aggressivi vincenti e felici.

E scopre pure che Molotov Girl è l’avatar dietro cui si nasconde la programmatrice Milly, che insieme al vecchio socio Keys (Joe Keery) sta cercando all’interno del gioco le prove per dimostrare che il magnate tecnologico Antonie (Taika Waititi) ha rubato il codice di un loro precedente progetto, un utopistico videogame pacifista, per trasformarlo nell’ennesimo sparatutto iperviolento e acchiappasoldi. Antonie per evitare che si scopra la verità che lo manderebbe sul lastrico è pronto persino a distruggere il suo gioco. Il che, oltre alle speranze di Milly e Keys, spegnerebbe definitivamente il mondo e la vita stessa di Guy, disposto a tutto pur di evitare il peggio.

È incalcolabile il numero di riferimenti e citazioni del film diretto da Shawn Levy – sceneggiatura di Matt Lieberman e Zak Penn – e prodotto dalla 20th Century Studios, ossia dalla Disney, che dopo oltre un anno di attesa ha deciso di destinarlo soltanto ai cinema (nell’esatto momento in cui è in causa con Scarlett Johansson per aver distribuito Black Widow contemporaneamente in sala e su Disney+). Free Guy è prima di tutto un aggiornamento del Truman Show. E se quel film radiografava la paura di un mondo in cui la realtà si andava trasformando in un reality a servizio della società dello spettacolo, ora, all’altezza di una società integralmente mediatizzata, il timore è che la realtà sia mutata in un universo digitale regolato da codici e algoritmi, smaterializzato e postumano.

Ci sono anche gli echi dei time-loop movies alla Ricomincio Da Capo, mostrando con chiarezza la filiazione di quella struttura narrativa proprio dall’universo dei videogiochi, almeno di vecchia generazione, nei quali non solo il protagonista tende a ripetere sempre gli stessi comportamenti, ma è anche dotato di un numero consistente di vite, senza che la morte giunga mai definitiva. Appartiene invece più al modello di umanesimo positivo di Ready Player One l’ottimismo del personaggio di Ryan Reynolds, che in Free Guy rappresenta la scheggia impazzita, l’elemento che non risponde alle regole del gioco e che, per ragioni che nemmeno Milly e Keys riescono a comprendere, esce dallo schema di programmazione per affermare la sua individualità di soggetto dotato di libero arbitrio.

Free Guy farebbe la felicità di uno studioso dei media per la capacità di sintetizzare in una forma accattivante un gran numero di questioni riguardanti il nostro modo di abitare un universo mediale in cui il confine tra reale e digitale è sempre più sfumato e impercettibile. Nel quale non è nemmeno sicuro che il primo sia apoditticamente preferibile al secondo. Infatti Keys ha deciso di diventare un programmatore, perché “le parole ti deludono, gli zero e uno del codice binario no”. E Buddy dice a un confuso Guy che Free City potrà pur essere uno spazio digitale fittizio, ma è il loro qui e ora, la sola realtà possibile, l’unica per cui valga la pena lottare fino alla fine.

A dispetto della struttura ridanciana, Free Guy pone questioni complesse e attuali, certo diluite in un modello spettacolare che tende a stemperare l’inquietudine da apocalisse prossima ventura su cui poggia il racconto – la minaccia di Antonie di terminare il gioco –, mentre invece Truman Show tematizzava consapevolmente l’angoscia millenaristica da fine del mondo come l’abbiamo conosciuto. La struttura però è la stessa. E infatti è sempre il mare a fungere da confine non oltrepassabile, lungo il quale il protagonista deve trovare il coraggio di inoltrarsi per affrontare le proprie paure e porsi in contatto con la sfera inconscia irrazionale, che si sottrae alla logica costrittiva delle sequenze di zero e uno.

Si lambisce persino una chiave “politica” alla Carpenter in Free Guy, nella citazione del dispositivo, tratto da Essi Vivono, degli occhiali che una volta indossati consentono a Guy di vedere la stoffa di cui è fatta la cosiddetta realtà. Che però non ha le fattezze terrorizzanti degli automi scheletriti che sono ormai divenuti gli uomini, e invece consiste in quell’insieme di opportunità di cui il giocatore può impossessarsi per diventare più potente.

Nella sua ricercata frivolezza, ribadita dalla recitazione ironica ed esageratamente ammiccante di Reynolds, il film pare anche dirci che un’autentica rivolta umanistica tesa al ritorno alla realtà ha ormai poco senso. Meglio è, una volta presa consapevolezza dell’avvenuta mutazione digitale, accettarne lo statuto, cercando all’interno di quel nuovo mondo – altre dimensioni non esistono – un modo accettabilmente personale per abitarlo. Questo sebbene la propria intelligenza, ormai, possa non essere più umana ma artificiale – ma chi è più in grado di cogliere la differenza, e come? E nonostante il fatto che divenga impossibile conoscere quell’esperienza terremotante che è l’amore, cui si può ovviare accontentandosi di quel piccolo miracolo che è comunque la nascita di una vera amicizia.

A quel punto si troverà una pace interiore senza più assilli e domande. Che farà sembrare plausibile pure l’idea di un film Disney – detentrice dei diritti di quasi tutti i franchise contemporanei più redditizi, dalla Marvel a Star Wars – che mette in guardia lo spettatore dallo strapotere delle multinazionali globali e dall’impoverimento dell’immaginario, ridotto a una sequenza interminabile di remake, reboot e plagi.