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Ready Player One, su Netflix arriva il film di Spielberg tra distopia e nostalgia

In un mondo in miseria gli uomini si rifugiano in un videogioco, migliore della loro vita. La premessa è da incubo, ma Spielberg addolcisce tutto, con un eroe ragazzino, il buon senso e la nostalgia. Sprecando un’occasione

di Stefano Fedele
02/06/2020
INTERAZIONI: 78

INTERAZIONI: 78

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Ready Player One

Nel 2045 di Ready Player One, il film di Steven Spielberg del 2018 tratto dal romanzo di Ernest Cline Player One, la distopia s’è fatta realtà. Il mondo è un luogo inquinato e inospitale, una lunga teoria di baraccopoli e povertà diffusa. Disperati, gli esseri umani si rifugiano nel videogioco Oasis, un’esperienza immersiva che anestetizza dall’asfissiante vita quotidiana.

Il suo eccentrico inventore, il multimiliardario James Halliday (Mark Rylance), ha lanciato prima di morire una competizione in tre round, le cui tracce sono sepolte tra le pieghe più nascoste di Oasis. Premio finale, per chi supera la prova, la proprietà e il controllo totale del videogioco. Si scatena un’isterica caccia al tesoro, con miliardi di partecipanti. Dopo anni di infruttuosi tentativi, il giovane Wade Watts (Tye Sheridan), conosciuto nel gioco con l’avatar di Parzival, riesce a superare la prima prova, diventando una celebrità virtuale – nessuno conosce la sua vera identità –, calamitando le attenzioni della IOI, la multinazionale che da anni sta cercando di risolvere il mistero di Oasis per impossessarsene.

In Ready Player One il mondo virtuale costituisce l’unica via di fuga all’incubo del quotidiano. Da cui deriva, come logica conseguenza, che gran parte del film si svolga nel mondo virtuale, in cui il cinema coincide con la dimensione del videogioco, portando alle estreme conseguenze un processo di lunga durata scandito da tappe come Matrix e Avatar, e che vede il suo pronipote nel seminale esperimento di Tron del 1982. Proprio gli anni Ottanta costituiscono il dato essenziale dell’ossessione nostalgica di Ready Player One: nel quale – era già così nel romanzo di Cline, cosceneggiatore del film – ci sono una quantità sterminata di riferimenti pescati da quell’epoca, il decennio che ha plasmato le coordinate essenziali dell’immaginario contemporaneo.

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Gli appassionati potranno divertirsi a individuare tutte le tracce più o meno nascoste nel film, da Ritorno al futuro ad Akira, dall’A-Team a Stanley Kubrick – vertiginosa la citazione di Shining, un’autentica immersione negli spazi dell’Overlook Hotel che fa pensare agli esperimenti di videoarte, anche quelli ottanteschi, di Zbigniew Rybczyński. Questo gioco quasi enigmistico, oltre a fare la felicità della cultura nerd e geek, costituisce il modello stesso su cui è incardinato il meccanismo narrativo e interpretativo del film.

Nella stessa posizione del pubblico infatti – gratificato dal fatto di riuscire a scovare tutti i riferimenti –, è il protagonista Wade/Parzival, che riesce a destreggiarsi nel videogame grazie alla sua conoscenza enciclopedica della vita di Halliday, elemento indispensabile per risolvere gli indovinelli disseminati nel gioco. Adirittura, Wade può rivedere ogni attimo della vita dell’inventore di Oasis nella sterminata biblioteca visuale che raccoglie le sue memorie, in un archivio con renderizzazioni in 3d. Lui stesso insomma, è uno spettatore della vita di Halliday, esatto corrispettivo dello spettatore di Ready Player One.

L’operazione di Spielberg è estremamente consapevole, e il continuo slittamento tra reale e virtuale è perfettamente controllato, con volute sovrapposizioni in cui i personaggi rischiano di non sapere più dove si trovano, se nella realtà o nel mondo ricreato digitalmente. Ciò che non convince, come capita talvolta a questo grande creatore di immagini e immaginari, è la didascalicità dell’assunto. Il grande modello di riferimento di Ready Player One è ovviamente Quarto potere. Ma mentre Orson Welles ci ammoniva, ricordando che è impossibile capire il senso di quell’enigma che è la vita di un uomo, Spielberg invece di Halliday ci offre tutti i momenti della vita ben catalogati, a tre dimensioni e ad alta definizione, da vedere e rivedere comodamente per trovare risposte precise a qualunque interrogativo.

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Spielberg sul set coi protagonisti Olivia Cooke e Tye Sheridan

Sotto la vertiginosa fantasmagoria visiva, Ready Player One resta un racconto rassicurante, perché è chiaro che ogni domanda troverà prima o poi infallibilmente una risposta. La stessa sfida di Oasis si sviluppa come una battaglia senza ambiguità tra buoni e cattivi perfettamente riconoscibili. Da un lato la multinazionale IOI/Golia – tanto potente quanto ingenua, cerca da anni di vincere seguendo le regole e non ha mai pensato di hackerare il gioco –, dall’altro Wade/Davide e la sua tenera banda di fedelissimi sodali adolescenti. I quali sembrano usciti fuori non dalla penna di uno sceneggiatore ma da un ufficio marketing preoccupato di vendere il film a ogni target di qualunque paese. Per cui c’è la ragazza bianca, quella nera, l’adolescente orientale, il ragazzino undicenne.

La scansione tra reale e virtuale di Ready Player One, invece di essere segnata da angosce autenticamente distopiche, è destinata a trovare un accomodamento di buon senso, in cui per disattivare i pericoli potenziali delle tecnologie basta un loro uso accorto e giudizioso. Senza dimenticare mai che la realtà è la cosa più bella che abbiamo. Un po’ poco, vista la drammaticità delle premesse. A meno che la ricetta un po’ facile non nasconda un altro risvolto. Spielberg potrebbe anche starci dicendo che tutto ciò che doveva accadere è già accaduto e non c’è verso, ormai, di cambiare lo stato delle cose. Allora è meglio farsene una ragione e accontentarsi di restare chiusi dentro la trappola nostalgica nella quale ci si può divertire giocando con citazioni e indovinelli. Illudendosi che bastino due giorni alla settimana di disintossicazione da realtà virtuale per vivere passabilmente bene.

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