Jungle Cruise, un rutilante film d’avventura senza il senso del fiabesco dei classici Disney

Emily Blunt e Dwayne Johnson sono i protagonisti di un film che s’ispira a una celebre attrazione di Disneyland. E che arranca sotto troppi riferimenti ad altri film, troppi messaggi posticci, troppi effetti digitali. Dal 28 luglio in sala e dal 30 su Disney+

Jungle Cruise

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Inizialmente annunciato per la fine del 2019, Jungle Cruise alla fine per le vicende pandemiche è slittato sino al 2021, con una doppia uscita quasi contemporanea, strategia ormai usuale per la Disney, il 28 luglio in sala e dal 30 su Disney+ con accesso Vip. Si tratta di un progetto di lunghissima gestazione, annunciato sin dal 2004, nel quale a un certo punto, dieci anni fa, il protagonista sarebbe dovuto essere Tom Hanks. Dopo varie riscritture, si è giunti all’assetto attuale, con la sceneggiatura firmata da Michael Green (Logan, Blade Runner 2049), Glenn Ficarra e John Requa, la regia di Jaume Collet-Serra e la coppia Dwayne Johnson (anche produttore) ed Emily Blunt come protagonisti.

Siamo nel 1916, due anni dopo l’inizio della sanguinosa Prima Guerra Mondiale: la scienziata Lily Houghton (Blunt), come il padre che l’aveva cercato per tutta la vita, crede fermamente all’esistenza di un leggendario Albero della Vita, i cui petali sarebbero in grado di curare qualunque malattia. Dopo essersi impossessata (o per meglio dire dopo aver rubato) un’antica punta di freccia che dovrebbe aiutarla nella soluzione dell’enigma, decide di partire per il Rio delle Amazzoni insieme al fratello MacGregor (Jack Whitehall), alla ricerca dell’albero taumaturgico.

Sul posto, ad aiutarla nella perigliosa avventura nella giungla trova il battello più scassato dell’emisfero equatoriale, comandato da un gaglioffo matricolato e truffatore che risponde al nome di Frank Wolff (Johnson), che su quella storia fantastica però sembra saperne più di quanto dia a vedere. Purtroppo per Lily, lei non è l’unica a credere alle leggende. Sulle tracce del prezioso albero è anche il principe tedesco Joachim (Jesse Plemons), figlio del kaiser Guglielmo II, disposto a tutto, e soprattutto al peggio, pur di entrare in possesso dei petali che lui, certamente, non intende usare, com’è nei nobili disegni della ragazza, per salvare l’umanità dagli orrori della guerra. Senza dimenticare un altro protagonista sorprendente, il terribile Aguirre (Édgar Ramírez), il conquistador che s’inoltro nella foresta amazzonica più di quattro secoli prima, alla ricerca di El Dorado ed, evidentemente, dell’albero miracoloso.

Jungle Cruise, sin dal titolo, s’ispira a una delle più celebri attrazioni di Disneyland, inaugurata sin dalla metà degli anni Cinquanta e ancora operativa in alcuni parchi a tema (Anaheim, Florida, Tokio, Hong Kong). Perciò vuole essere non solo un entusiasmante racconto che omaggia i classici live action della Disney, ma anche un nostalgico viaggio nella memoria di frequentatori che attraverso i decenni hanno vissuto l’esperienza immersiva del parco giochi. Per cui, anche se i destinatari principali del film restano i più piccoli, questo richiamo intergenerazionale fa sì che la struttura del racconto rimandi a cult di epoche molto diverse, ognuno riconoscibile per varie porzioni di pubblico.

Le schermaglie tra Lily e il burbero Frank, all’inizio nel segno dell’antipatia, poi sempre più complici, strizzano l’occhio al duetto, quello sì leggendario, tra Katharine Hepburn ed Humphrey Bogart de La Regina D’Africa. Il versante avventuroso spazia tra numerosi rimandi: parte da Indiana Jones, passa per il romanticismo di All’Inseguimento Della Pietra Verde e poi, soprattutto quando la fantasmagoria visiva prende il sopravvento, mostra i suoi legami con la versione della Mummia del 1999 (per le venature horror e per il ruolo del fratello MacGregor, esemplato sul personaggio di John Hannah di quel film). Senza dimenticare, naturalmente, I Pirati Dei Caraibi.

E Jungle Cruise si muove affannoso sotto l’ingombrante bric-à-brac di riferimenti, omaggi e strizzatine d’occhio, senza trovare mai una misura felicemente e ingenuamente avventurosa. Invece che sulla semplicità, il film punta sul sovraccarico visivo, tra una macchina da presa in perenne movimento e l’esplosione senza requie di effetti speciali, confondendo il fantastico e il meraviglioso con il bombardamento caotico di stimoli sensoriali. Nei quali, per l’onnipresenza dell’animazione CGI, pure la giungla, che della storia dovrebbe costituire un personaggio fondamentale, smarrisce qualunque consistenza verosimile, trasformando l’intera ambientazione in un posticcio universo digitale anonimo e insapore. Come irrealistici sembrano anche l’incarnato di porcellana di Emily Blunt e il corpo metallico del pur simpatico e guascone Johnson.

Probabilmente Jaume Collet-Serra, un regista specializzato in thriller malamente hitchcockiani (Unknown) e banalmente claustrofobici (Non Stop, Paradise Beach), non era la scelta migliore per un film che all’anima action aveva bisogno di accostare una leggerezza infantile e fiabesca. Non aiutano nemmeno i “messaggi” di cui Jungle Cruise deve farsi carico per dimostrare di essere assolutamente contemporaneo e politicamente corretto: dal femminismo – Lily porta scandalosamente i pantaloni ed è apertamente derisa dalla comunità scientifica perché donna – all’ecologismo al rispetto della diversità (MacGregor è dichiaratamente omosessuale, anche se poi raccontato secondo i classici stereotipi del gay iperaffettato). Troppe cose per un film che avrebbe potuto puntare sul puro romanzo d’avventura.